
Nelle due settimane successive, mi rifiutai anche solo di aprire l’armadio per prendere il borsone. Al contrario, mia madre si dava da fare. Si alzava la mattina, e doveva uscire per andare a comprare un bottone che le sarebbe servito a rammendare una mia camicia. Sul tardo pomeriggio, si metteva a sistemare tutto quello che mi sarebbe servito.
La partenza era prevista per il fine settimana e mia madre, donna mondana quale era, aveva organizzato per due giorni prima una cena per pochi intimi amici. Ovviamente ci sarebbe stata anche lei, Isabella. Erano due settimane e mezzo che non la vedevo,e il dolore della lontananza non era diminuito neanche un po’.
Appena arrivò il giorno della festa, non ebbi il coraggio di alzarmi dal letto per tutto il tempo. La borsa era pronta, a breve gli invitati sarebbero arrivati, e mia madre faceva finta che non stesse succedendo niente. E siccome non mi piaceva guardarla, stetti tutto il giorno a rigirarmi nel letto, insonne.
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“Posso entrare?” domandò lei dalla porta. Mi misi seduto sul letto, poggiando le mani sulle lenzuola sgualcite, enormemente sgradevoli al tatto. Senza aspettare il mio assenso, la massa di capelli rossi e ricci di mia madre fece il suo ingresso nella camera. Aspettò alcuni secondi sulla porta, esitante, finchè non le feci un segno del capo, dandole il permesso di entrare.
“Ti ho preparato bene la valigia. Sei pronto a vestirti? Gli ospiti stanno arrivando”. Abbassò lo sguardo, e giunse le mani all’altezza della vita.
“Si, vado”, le risposi. Prima di uscire dalla parta, le cinsi i fianchi, e la lasciai andare delicatamente poco dopo. Mi rinchiusi in bagno, dalla quale uscii una mezz’ora dopo, perfettamente vestito e ripulito, come un damerino di corte.
I primi invitati erano arrivati, e li andai a salutare cortesemente. Ovviamente, guardavano sia me che mia madre in modo compassionevole, dato che, in due settimane, ci eravamo rovinati. Lei, mandata in rovina dal figlio. Io, mandato in rovina da me stesso e dalla mia stupidaggine.
Pochi minuti dopo, l’atmosfera si era fatta plumbea. Più che un’amichevole cena, sembrava un funerale. I visi tristi c’erano.
Gli Hart erano arrivati già da un bel po’. Non mi avevano neanche salutato, e non è che ci sperassi. Le due sorelle , perfettamente vestite e coordinate tra loro, erano in bella compagnia. Claire, la maggiore, era accompagnata dal suo futuro marito, un uomo più grande di lei dallo sguardo stralunato. La sorella, la mia Isabella, invece, era con un bell’imbusto biondo, che si guardava intorno sorridendo come un’ammaliante ebete. Le teneva teneramente la mano.
Appena i miei occhi e quelli di Isabella si incontrarono, abbassò subito lo sguardo. Il viso diventò violetto, e il suo viso era rivolto verso il basso, verso la mano sinistra. Mi ci vollero pochissimi secondi per capire che cosa guardava. Sulla sua mano, infatti, brillava un anello d’oro bianco delicato, che faceva a pugni con la sua bella carnagione bianca. Mi sentii crollare il mondo addosso. Si era fidanzata.
Si rese conto che avevo visto l’anello, e cacciò la mano subito dietro la schina, togliendola dalla stretta del ragazzo. La guardai con aria truce e avvilita, notando che nei suoi occhi c’erano solo dolore e delusione.
Per la mezz’ora successiva, non le staccai gli occhi di dosso. Sperai che nessuno notasse la maniacalità con cui guardavo prima lei, poi lui, poi l’anello. A giro.
Lei, come lui, sempre sorridente. Non potevo non dubitare che fingesse di essere felice, anche perché vedevo che a volte pure lei mi guardava con aria sofferente. Forse anche lei agognava le mie braccia, al posto di quelle di lui.
Data la mia sfortunata situazione con il padre, non potevo neanche avvicinarmi. Grazie al cielo, il signor Hart aveva avuto l’accortezza di non lascarsi sfuggire niente di quel brutto incidente avvenuto a casa sua tempo prima. Sicuramente non voleva che mia madre provasse vergogna a mostrare la sua faccia in giro per colpa del figlio adolescente, e quindi di conseguenza immaturo.
Dopo aver parlato del più e del meno per un po’ con la nostra vicina di casa, Isabella si scusò cortesemente, chiedendo di poter andare a prendere un po’ d’aria. La lasciai andare, convinto che volesse solo riprendere un po’ il fiato. Da sola.
“Va da lei, Edward”, mi ordinò mia madre da dietro, indicando la porta. Non dovetti riflettere per seguire quel consiglio. Le mia gambe sembravano autonome, senza alcun controllo. E volevano andare da lei.
La trovai al secondo piano, davanti alla porta di camera mia. Aveva la schiena appoggiata al muro, le gambe flesse, quasi fosse seduta sopra una sedia immaginaria. Erroneamente, feci scricchiolare l’ultimo gradino della scala di legno, e lei alzò lo sguardo. Appena mi riconobbe attraverso quei lacrimoni che a stento tratteneva negli occhi, si raddrizzò, sistemando le pieghe del vestito blu. Non mi guardò, e subito chiuse gli occhi, puntando la testa verso il basso.
Appena lo rialzò ed aprì gli occhi, le lacrime erano sparite, e la mascella era premuta contro i denti.
“Dì qualcosa, ti prego” soffiò.
“Cosa dovrei dire? Auguri di buon fidanzamento”. Cercai di mantenere un tono distaccato. Era difficile.
“Sai che non è dipeso da me, Edward” singhiozzò.
“E da chi allora? Non mi dire che ti hanno obbligata, perché non ti crederei. So che non è vero”, tuonai. Nel sentire la mia voce ostile, le barriere di Isabella calarono. Scoppiò in singhiozzi convulsi.
Le sue lacrime ormai sgorgavano senza freno. Tra il pianto, cercava di parlare, di spiegare.
“O-ogni contatto, con lui, è una tortura, Edward. Non sai cosa significa desiderare così ardentemente che ci siano un altro paio di braccia a stringerti, un’altra voce che all’orecchio ti sussurri i sonetti di Romeo e Giulietta. Impazzirò. Cerco di non darlo a vedere, ma so che lui se ne accorgerà prima o poi. Non è stupido come sembra a prima vista”. Cercai di non fare vedere la sorpresa che mi colse. Mi stava dicendo che non sarebbe riuscita a lungo a nascondere il suo amore per me. Era la cosa che desideravo di più sentire, e quella che temevo più di tutte. Ci stavamo rovinando.
Il mio silenzio aveva sconvolto Isabella, che si aspettava almeno un commento da me.
“Devi scendere, o tuo marito si insospettirà”, le dissi, con l’espressione prima di emozioni. Fu indescrivibile la sofferenza che provai nel vedere il suo viso tramortito dallo stupore.
“Non puoi dirmi una cosa del genere. Io resto. Con te mi infilerò nella valigia, e mi porterai con te al campo di addestramento. Farei di tutto” piagnucolò, tra le labbra. Mi venne incontro, e mi si buttò addosso, appoggiando la testa al mio petto.
La strinsi con fermezza ma dolcemente tra le mie braccia, così da poter mettere tutto nella memoria. Il suo odore, la finezza dei suoi capelli, la morbidezza delle sue labbra. Labbra che avevano sfiorato la mia pelle solo una volta. Quanto avrei voluto che lo avessero fatto un’ultima volta.
Si allontanò un po’ da me, ma solo per tenermi la mano.
Sentivo il trambusto, di sotto, di persone che cercavano lei. Ma Isabella non se ne curava, e io volevo solo gustarmi il momento. Le accarezzai la mano col pollice, sentendo all’improvviso la pietra dura e fredda dell’anello di fidanzamento a contatto con la mia pelle.
Mentre lei poggiava la testa al muro, socchiudendo gli occhi, io portai la sua mano in alto, in modo da osservare l’anello all’anulare. Senza pensarci, glielo sfilai, e lei riaprì subito le palpebre, spalancandole per la sorpresa. Il le sorrisi debolmente.
“Non puoi chiedermi di accarezzarti la mano mentre lo indossi. Non posso toccarti mentre sulla tua mano c’è il simbolo della tua appartenenza ad un altro” sussurrai. Le detti l’anello, così che potesse farne ciò che desiderava. Lo lasciò cadere nella tasca del vestito.
“Io non gli appartengo. Tra due giorni partirà per la guerra, e per me sarà solo un povero ragazzo messo di forza addosso alle schiere nemiche. Ma per te è diverso. Lo sai”
“Promettimi che ci sarai, Isabella. Giura che, per quanto a lungo io possa mancare, tu non mi dimenticherai. Perché io ti dico adesso che tu sarai l’ultimo pensiero che farò prima di avventarmi contro un uomo, la prima cosa a cui penserò quando il sole sorgerà. Tu, e tu soltanto”, dissi. Non sembrò stupita dalle mie parole, ma potevo vedere nei suoi occhi un bagliore nuovo.
“Ti amo”, completai.
Il suo cuore, dapprima solo con un battito accelerato, ebbe un tuffo. L’avevo sorpresa. Si riprese subito, e prontamente mi rispose:
“Ti amo anche io”.
Di nuovo, come altre mille volte prima, ci immergemmo l’uno negli occhi dell’altro. Non c’era bisogno di parlare, in momento come quelli. 
Alla prossima settimana!

 




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



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