martedì 10 novembre 2009

Until The Time Is Through cap 7!

Buonasera a tuttiii!!

Mi scuso enormemente per il ritardo, e vi posto il settimo capitolo di Until The Time Is Through. Mi raccomando, commentate numerosii!!!!
Buona lettura!

Chissà come le apparivo in quel momento: lei, altera e forte, tanto da venire a casa di un uomo a quell’ora della notte di nascosto e tutta sola, doveva pensare che di un uomo non avevo niente. Mi ero lasciato sbattere fuori casa sua senza controbattere, abbandonando la nostra causa. Sicuramente si aspettava un altro genere di cose.
“Voi lo sapete vero? Per questo siete qui” sussurrai, più a me stesso che a lei. Avrei dovuto fare qualcosa per Claire, una volta sistemato tutto. Isabella si avvicinò, mentre io la guardavo con la mente annebbiata.
I nostri occhi si incontrarono, mentre lei annuiva leggermente, rispondendomi. Sembrava avesse paura della mia reazione.
“Mi dispiace” sussurrò, la voce flebile come mai prima. Sembrava sull’orlo del pianto. Rimasi di sasso.
“Non capisco” risposi, interdetto. E lei abbassò lo sguardo, nascondendo i suoi occhi tra le foltissime ciglia nere. Continuava a non rispondermi.
“Perché siete venuta qui?” ripetei. Alzò la testa, fissandomi con un aria di sfida.
“Se voi non foste venuto a casa mia stanotte, avremmo potuto sistemare tutto senza troppi intoppi. Siete stato un incosciente. Cosa vi è passato per la mente?”
“Dovevo parlarvi. Di me, di noi. E so per certo che anche voi volevate” le dissi, gonfiando il petto.
“Volevo venire a casa vostra?”. Alzò il sopracciglio destro, incredula.
“Non parlo di questo. Anche voi secondo me volevate parlarmi” spiegai.
“E come mai ne siete così certo?” domandò, inclinando la testa, curiosa.
“Siete venuta. Già di per sé questa è una prova”.
Seguì un momento di silenzio, interrotto solo dai nostri respiri affannati, un po’ per il freddo, un po’ per l’emozione. Un altro momento di silenzio, in cui avrei potuto giurare di aver visto l’indecisione balenare nei suoi occhi.
“Forse avete ragione” disse poi, rassegnata. Quando mi guardò, i suoi occhi erano velati dalla commozione. Dentro di me, sentii azionare un meccanismo ad orologeria, che fece scattare le mie gambe verso di lei.
Mi avvicinai cautamente, in modo da non spaventarla. Con lentezza massima, la feci scivolare tra le mie braccia, in modo da darle un riparo.
Mi lasciò fare, e si accoccolò sul mio petto. Mi poggiò le mani sulle braccia, pronta per bloccarmi nel caso in cui avessi fatto qualcosa di illecito. Ma non lo avrei fatto. Non avrei osato fare qualcosa che avrebbe potuto in qualche modo essere nocivo per lei. Ogni cosa nella mia testa, infatti, mi diceva di staccarmi da lei, che era tutto sbagliato. Anche solo quel contatto non mi era permesso. Se ci avessero visto in quel momento, non so cosa sarebbe successo.
Ma come succedeva spesso, in quei tempi, mi rifiutai di ascoltare quella vocina fastidiosa che mi urlava di lasciarla. Stavo con lei appoggiata a me, al resto avrei pensato poi.
La strinsi più forte, facendo attenzione nel caso lei non avesse voluto. Ma, per mia fortuna, anche lei mi strinse.
Abbassai lo sguardo, quando mi accorsi che alcune piccole gemme cristalline si erano posate sul mio braccio.
Isabella stava piangendo.
La baciai delicatamente sulla fronte, socchiudendo gli occhi. Il profumo dei suoi capelli, così delicato e delizioso, mi inebriò la mente.
Quello che successe dopo, mise a dura prova il mio autocontrollo.
Lei, più intraprendente che mai, si lasciò baciare. Ma, invece di rimanere impassibile, volle essere partecipante attivo.
Attaccò le labbra morbide e rosee alla mia guancia intorpidita. La sensazione che in me scaturì quel contatto fu indescrivibile. Ma non potevo andare oltre, non mi era permesso.
Mi staccai da lei, dolorante fino in fondo per l’improvvisa assenza di lei tra le mie braccia.
“Non può finire così, Edward.”, disse, con le guance ancora rigate dalle lacrime. Le sfiorai la guancia con la mano, per asciugarla. A sorpresa, mi prese la mano e la trattenne sulla sua pelle vellutata.
“Devi andartene”, sussurrai. Di fretta, staccai la mano dal suo viso, e i suoi occhi divennero vitrei. Mi fissava, priva di alcuna emozione.
“Sai che abbiamo tutti contro di noi. Se si sapesse che sei venuta qui, nessuno ti vorrebbe più come moglie. Finirei per rovinarti la vita, e non voglio”. Avevo chiuso in quel momento il cuore in una cassa, dal quale non lo avrei tolto mai, dopo quella sera.
“Edward, io ora me ne andrò. Ma sappiamo tutti e due che non potremo stare lontani molto a lungo” esalò, prima di voltarsi verso casa sua. Con una voglia matta di seguirla, allungai la mano verso di lei, involontariamente.
E, sempre senza che un pensiero coerente comandasse le mie gambe, cominciai a seguirla, assecondando i suoi movimenti.
Si fermò poco dopo, in mezzo alla strada, senza voltarsi verso di me. Anche se aspettava che la raggiungessi, non lo feci.
Lei sembrò capire, perché si affrettò verso la porta di casa, ormai distante solo alcuni metri. Mi scoccò un ultimo sguardo triste, prima di sparire tra le mura di quella casa. Con la testa più spenta che funzionante, barcollai senza forze per tutto il quartiere, in attesa di veder spuntare l’alba.
Ero vuoto, completamente. Se avevo mai avuto qualcosa, adesso sentivo solo ceneri volare da una parte all’altra del mio corpo, graffiando e consumando tutto quello che restava di me. Ma non osai ripensare al volto di Bella prima di entrare a casa. Sperai avesse capito. Eravamo già andati troppo oltre.

Al Prossimo Martedì!

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