Ben ritrovati con la fiction del martedi, ovvero Until The Time Is Through!
Siamo già arrivati al sesto capitolo!! spero vi siano piaciuti gli altri!
Vi raccomando sempre di commentare, voglio sapere cosa ne pensate!
Quando tornai a casa, quella notte, ero più che preparato ad una sfuriata epica di mia madre. Ero stato ore ad assaporare l’aria autunnale per le vie del quartiere, pensando ad un modo gentile per dirle che non mi sarei più sposato.
Chissà perché, un semplice “Mamma non mi sposo più perché mi sono intrufolato a casa di Isabella facendo infuriare suo padre” non mi convinceva.
Così entrai a casa, pronto a veder sbucare da dietro l’angolo mia madre in camicia da notte che urlava a squarciagola. Ma il silenzio regnava nel soggiorno.
Mi diressi verso la cucina, sperando di trovarla, e mi trovai di fronte ad una scena raccapricciante.
Mia madre, come avevo previsto in camicia da notte, era seduta su una delle sedie attorno al tavolo, con il gomito appoggiato al legno scuro del bancone, che si teneva la testa tra le mani. Singhiozzava convulsamente, tanto che dovetti avvicinarmi in punta di piedi per non spaventarla. Sii trasparente, mi dissi.
“Come hai potuto Edward?”, balbettò con voce malferma.
Mi bloccai, e rimasi a guardarla. I ricci, perennemente sparati verso l’altro, adesso erano afflosciati, privi di vita.
“Madre..” cominciai.
“Non sono ancora pronta per vederti morire in guerra, Edward”, mi interruppe, con voce più ferma. Mi guardava con gli stessi occhi di un cerbiatto spaventato. Nel buio della cucina, i suoi occhi brillavano dei riflessi della luna, dandole un aria spettrale. Non che la sua espressione fosse da meno, comunque.
Si alzò e, a sorpresa, me la ritrovai tra le braccia, mentre mi guardava con un’aria implorante sul viso. La strinsi ancora più forte a me, e lei prese a piangere silenziosa sulla mia spalla.
La trascinai su una sedia, dove, poco a poco, si calmò. Il suo respiro si fece a poco a poco più regolare, fino a diventare lento e profondo. Mi distrassi un attimo per dare una fugace occhiata alla notte fuori dalla finestra e la ritrovai addormentata su di me.
Con quanta più delicatezza mi era possibile, mi alzai dalla sedia di legno, che cigolò in risposta all’assenza di peso.
Mi trascinai su per le scale, con lei in dormiveglia appesa alle braccia. A stento muoveva le gambe, tanto era stanca. Sicuramente la signora Hart, svegliata da tutto il trambusto che si era creato in casa sua, aveva sentito l’indomabile bisogno di chiamare mia madre per avvertirla di tutto. E da lì in poi, tutto in discesa. Mia madre si era alzata di corsa, e mi aveva aspettato per ore in cucina, apprensiva com’era, chiedendosi se sarei mai tornato.
Adagiai mia madre sul letto di metallo cigolante. Avrei dovuto riparare al più presto la testata: il ferro nero era quasi completamente ingiallito. Per mia fortuna, mia madre non aveva mai fatto caso all’apparire della nostra casa, dato che di ospiti ne venivano così pochi. La lasciai sul letto, rimboccandole le coperte con cura. Prima di trasferirmi nella mia stanza, le asciugai con l’indice le ultime lacrime che si erano trattenute tra le folte ciglia.
Cercai di mantenere un passo felpato anche quando cominciai a camminare avanti ed indietro per la camera, il viso contorto in un’espressione di dolore.
Mi affacciai alla finestra.
Era tardi, ed il silenzio mi invase le orecchie, assordandomi. L’unico insignificante rumore veniva dalla terrazza dei vicini, dove un gatto stava facendo le fusa alla luna. Beato lui. Beato a non avere tutti i pensieri che in quel momento mi frullavano per la mente, manco fosse un corteo cittadino, con tutta la gente che urla. Ma quel gatto era l’unico che mi faceva compagnia, e mi faceva da accompagnatore in quell’inferno che era la mia testa.
Lentamente, anche quel minimo suono si spense, così come tutte le luci nelle case. Erano andati tutti a dormire, magari con qualcuno accanto.
Ero solo, più che mai.
Senza volerlo, ripensai all’immagine si mia madre straziata dal pianto accucciata tra le mie braccia, come una bambina. Non osai pensare a come avrei potuto lasciarla, quando sarebbe stato il momento. C’erano così poche probabilità che tornassi a casa vivo. Al pensiero, non fui colto da nessuno brivido di paura. Secondo mio padre, ero un duro. Avevo sempre dato a quella parola un significato positivo, ma in quel momento non ne ero più tanto convinto.
Già, mio padre. Lo stesso padre che, fino a pochi mesi prima, smaniava dalla voglia di andare in guerra. Tanto che, dopo appena qualche settimana, era arrivata una lettera dell’esercito, con le condoglianze da parte di tutte le unità del corpo armato. Dopo quello, non vidi mia madre per giorni interi, essendosi lei rinchiusa nella sua camera. Io, d’altro canto, mi rinchiusi nel locali dove, ogni sera, mi ubriacavo di nascosto, per soffocare quel senso di perdita enorme.
Fu un momento terribile. Solo grazie ad alcuni vicini, che mi vedevano sempre rientrare a casa tardi la sera, riuscii a rimettermi in carreggiata.
Se pure io avessi fatto la stessa fine di mio padre, mia madre ne sarebbe morta.
Appoggiai la testa la vetro ghiacciato della finestra, convinto che gelarmi il cervello non sarebbe stata una cattiva idea, dopotutto.
Toc, toc. Mi destai subito e mi rimisi in piedi. Toc. Un altro sassolino che sbatteva contro la finestra. Mezzo intontito, passai la mano sul vetro, per togliere l’alone appannato.
Una sagoma tremolante, coperta da una mantella blu notte lunga fino ai piedi, era sotto il mio davanzale. Appena alzò lo sguardo, non ci furono più dubbi su chi fosse.
Il mio angelo.
Volse lo sguardo verso di me, facendomi ammirare i suoi occhi marrone cioccolato trepidanti d’attesa. Senza pensarci, chiusi la finestra e di corsa volai al piano di sotto, infischiandomene dello scricchiolio del pavimento.
Inciampai varie volte, nonostante il tragitto fosse corto. Arrivato davanti alla porta principale, aprii e me la trovai davanti.
Era più bella di sempre.
Come avevo già notato la prima volta che l’avevo vista, il blu le stava d’incanto, esaltandole il candore meraviglioso della pelle. Sotto il mantello, scorsi un abito marroncino poco vistoso. Semplice. Senza fronzoli o merletti, proprio come l’adoravo. Si tolse il cappuccio, liberando la chioma castana sulle spalle, ancora addobbata di alcuni boccoli flessuosi resistiti alle sue dolci spazzolate. La pelle del viso, prima corrugata quando mi guardava sotto la finestra, adesso era distesa e liscia come seta.
Mi si inchinò davanti, in segno di reverenza. Per ultimo abbassò il viso, rivolgendolo verso terra. Allora cedetti.
Le misi la mia mano gelida sotto il mento, facendole alzare il volto verso di me. I suoi occhi, che ora mi fissavano, erano intrisi di una dolcezza stupenda.
Lentamente, si alzò, in modo da far adattare il vestito alle sue forme. Ci guardammo a lungo: era come se potessi perdermi nella profondità dei suoi occhi.
Non parlò. Aspettava che lo facessi io. 
al prossimo martedì! Commentate!

 




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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