sabato 14 novembre 2009

Pioggia di parole - La luce dell'alba

Buonaseraa a tutti!
Proprio in questo fine settimana concludiamo, per la rubrica Pioggia di Parole, con i brani tratti da Twilight.
Quindi, ecco il gran finale, tra ospedale e ballo di fine anno a scuola;)
Enjoy!


«Sssh, Bella... calmati».
«Non lasciarmi», lo implorai, senza voce.
«No, te lo prometto. Adesso rilassati, così chiamo l'infer­miera con i tranquillanti».
Ma il mio cuore non rallentava.
«Bella», mi accarezzò le guance, nervoso, «non andrò da nessuna parte. Sarò al tuo fianco ogni volta che avrai bisogno di me».
«Giura che non mi lascerai», bisbigliai. Cercavo almeno di controllare l'affanno. Sentivo le costole pulsare.
Avvicinò il mio viso al suo, tenendolo tra le mani. Il suo sguardo era aperto e serio. «Lo giuro».
Il profumo del suo respiro mi tranquillizzò. Riusciva a pla­care il dolore che sentivo respirando. Edward sostenne il mio sguardo fino a quando il mio corpo non iniziò a rilassarsi, len­tamente, e il ritmo del cuore tornò normale. Aveva gli occhi scuri, più neri che dorati.
«Va meglio?», chiese.
«Credo di sì».
Scosse il capo e mormorò qualcosa. Mi sembrava di aver colto le parole "reazione esagerata".
«Perché hai detto una cosa del genere, prima?», sussurrai, cercando di mantenere salda la voce. «Sei stanco di dovermi salvare in continuazione? Vuoi davvero che me ne vada?».
«No, non voglio stare senza te, Bella, certo che no. Sii raziona­le. Neanche doverti salvare è un problema. Ma il fatto è che sono io stesso a metterti in pericolo... in fondo è colpa mia se sei qui».
«Sì, se non fosse stato per te non sarei qui... viva».
«A malapena». La sua voce era un sussurro. «Coperta di bende e cerotti, nemmeno in grado di muoverti».
«Non parlo dell'ultima volta in cui ho rischiato di morire», sbottai, irritata. «Ce ne sono altre, scegline una. Se non ci fossi stato tu, sarei finita a marcire nel cimitero di Forks».
Le mie parole lo fecero sussultare, ma lo sguardo tormenta­to non se ne andava dai suoi occhi.
«Non è questa la parte peggiore, comunque», proseguì. Era come se non avessi parlato. «Non è stato averti vista là, sul pa­vimento... sottomessa e picchiata». La sua voce era soffocata. «Non è stato temere che fossi arrivato davvero troppo tardi. Nemmeno sentirti urlare di dolore... o tutti quei ricordi insop­portabili che porterò con me per l'eternità. No, la parte peggiore è stata sentire... sapere che non sarei riuscito a fermarmi. Essere convinto che sarei stato io a ucciderti».
«Ma non l'hai fatto».
«Avrei potuto. Senza sforzo».
Dovevo mantenere la calma... ma stava cercando di convin­cersi a lasciarmi, e il panico che mi aveva riempito i polmoni voleva uscire.
«Prometti», mormorai.
«Cosa?».
«Lo sai, cosa». A quel punto stavo per arrabbiarmi. Era te­stardamente determinato a battere sul tasto del pessimismo.
Sentì cambiare il mio tono di voce. Mi guardò torvo. «A quanto pare non sono abbastanza forte da poterti stare lonta­no, perciò immagino che alla fine farai a modo tuo... anche a costo di farti uccidere». Aggiunse quelle ultime parole in tono sgarbato.
«Bene». Non aveva promesso però, e la cosa non mi era sfuggita. Trattenevo a stento il panico; non mi era rimasto un briciolo di forza per controllare la rabbia. «Hai detto che ti sei fermato... adesso voglio sapere perché».
«Perché?».
«Perché l'hai fatto. Perché non hai lasciato che il veleno en­trasse in circolo? A quest'ora sarei uguale a te».
I suoi occhi diventarono neri e opachi, e ricordai che lui non aveva mai voluto che scoprissi certi particolari. Alice, proba­bilmente, era occupata a mettere ordine in ciò che aveva sco­perto della propria vita... oppure aveva trattenuto i pensieri in presenza di Edward. In ogni modo, era chiaro: lui non sospet­tava affatto che la sorella mi avesse spiegato la meccanica delle trasformazioni vampiresche. Era sorpreso e infuriato. Dilatò le narici, la sua bocca sembrava incisa nella pietra.
Non intendeva degnarmi di una risposta, era evidente.
«Sono la prima ad ammettere di non essere esperta di rela­zioni», dissi io, «ma mi sembra quantomeno logico... tra un uomo e una donna deve esserci una certa parità... per esem­pio, non può toccare sempre a uno solo dei due salvare l'altro. Devono potersi salvare a vicenda».
Seduto sul bordo del letto, incrociò le braccia e ci affondò il mento. Sembrava più tranquillo, tratteneva la sua furia. Evi­dentemente aveva deciso di arrabbiarsi con qualcun altro. Speravo di poter avvertire Alice prima che la incrociasse.
«Ma tu mi hai salvato», disse piano.
«Non posso essere sempre Lois Lane. Voglio essere anche Superman».
«Non sai cosa mi stai chiedendo». Parlava in tono pacato. Fissava il bordo della federa.
«Invece credo di sì».
«Bella, non te ne rendi conto. Ci penso da quasi novant'an­ni e non mi sono ancora fatto un'idea».
«Vorresti che Carlisle non ti avesse salvato?».
«No, non è così». S'interruppe qualche istante. «Ma la mia vita era giunta al termine. Non stavo rinunciando a niente».
«La mia vita sei tu. Soffrirei davvero soltanto se perdessi te». Stavo migliorando. Era facile ammettere a che punto aves­si bisogno di lui.
Ma Edward restava calmo. Deciso.
«Non posso farlo, Bella, e non lo farò».
«Perché no?». Avevo la gola secca, le parole non uscivano chiare come desideravo. «E non dirmi che è troppo difficile! Dopo oggi, o qualche giorno fa, quando è stato... be', dopo tutto questo, dovrebbe essere una passeggiata!».
Mi squadrò.
«E il dolore?», chiese.
Sbiancai. Non potei impedirmelo. Ma cercai di non far tra­pelare quanto bene ricordassi quella sensazione... il fuoco nel­le vene.
«È un problema mio. Posso cavarmela».
«A volte capita di trascinare il coraggio fino al punto in cui diventa pazzia».
«Poco importa. Tre giorni. Cosa vuoi che siano».
Edward reagì con una smorfia alle mie parole: dimostravo di essere più informata di quanto lui avrebbe desiderato. Lo vidi reprimere la rabbia e tornare a riflettere.
«E Charlie?», chiese all'improvviso. «Renée?».
Restai in silenzio, cercavo disperatamente una risposta, e i minuti passavano. Aprii la bocca, senza emettere suono. La ri­chiusi. Lui aspettava, con espressione trionfante, perché sape­va che non avevo una risposta degna di questo nome.
«Senti, nemmeno quello è un problema», bofonchiai infine; il mio tono di voce era poco convincente, come ogni volta che mentivo. «Renée ha sempre scelto ciò che le sembrava più giu­sto; non si opporrebbe se mi comportassi nello stesso modo. E Charlie si riprenderebbe, è flessibile, e si era abituato a stare da solo. Non posso badare a loro per sempre. Io voglio vivere la mia vita».
«Appunto. E non sarò io a farla terminare».
«Se aspettavi che fossi sul letto di morte, sappi che ci sono stata eccome!».
«Sì, però ti rimetterai».
Respirai a fondo per tranquillizzarmi, senza badare alla fitta nelle costole. Lo fissai, e lui mi restituì lo sguardo. La sua espressione non ammetteva compromessi.
«Invece no», risposi, piano.
Aggrottò le sopracciglia. «Certo che sì. Al massimo ti reste­ranno un paio di cicatrici...».
«Ti sbagli. Morirò».
«Sul serio, Bella». Si era innervosito. «Tra qualche giorno ti dimetteranno. Due settimane al massimo».
Lo inchiodai con uno sguardo: «Forse non morirò subito... ma prima o poi succederà. Ogni giorno, ogni minuto, quel mo­mento si avvicina. E diventerò vecchia».
Si rabbuiò quando capì cosa intendevo, chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «È così che succederà. Come dovrebbe succedere. Come sarebbe successo se io non fossi esistito... e io non sarei dovuto esistere».
Sbuffai. Lui aprì gli occhi, sorpreso.
«Che stupidaggine. Mi sembra di sentire il vincitore di una lotteria che, dopo avere riscosso il premio, dice: "Ehi, tornia­mo indietro alla normalità, è meglio così". Non me la dai a bere, sai».
«Sono tutt'altro che il premio di una lotteria».
«È vero. Sei molto meglio».
Alzò gli occhi e strinse le labbra. «Bella, non voglio più par­larne. Mi rifiuto di condannarti a un'eternità di notti e buio, punto e basta».
«Se pensi che possa finire qui, vuol dire che non mi conosci bene. Non sei l'unico vampiro che conosco». Il mio era un av­vertimento.
I suoi occhi ridiventarono neri. «Alice non oserebbe».
E per un istante mi spaventò a tal punto da essere costretta a credergli: non riuscivo a immaginare nessuno tanto coraggio­so da mettersi contro di lui.
«Alice ha già visto tutto, vero? Per questo ce l'hai con lei. Sa che un giorno... diventerò come te».
«Si sbaglia. Se è per questo, ti ha anche vista morta, ma non è accaduto».
«Per quel che mi riguarda, non scommetterò mai contro di lei».
Ci squadrammo a lungo. Il silenzio era rotto soltanto dal ronzio delle macchine, dai bip, dal gocciolare della flebo e dai rintocchi dell'orologio a muro. Finalmente, il suo viso si rilassò.
«Dunque la conclusione è...?», domandai.
Lui sorrise amaro. «Mi sembra che si chiami impasse».
[…]
Capii che l’infermiera se ne era andata quando qualcosa di freddo e li­scio mi sfiorò le guance.
«Resta», biascicai.
«Si, te lo prometto». La sua voce era bellissima, come una ninna nanna. «Come ho detto, finché lo desideri... finché è la cosa migliore per te».
Cercai di scuotere la testa, ma era troppo pesante. «... 'n è la stessa cosa», farfugliai.
Lui rise. «Non preoccuparti di questo adesso, Bella. Possia­mo ricominciare a discutere quando ti svegli».
Sorrisi, forse. «...'a bene».
Sentii le sue labbra vicino all'orecchio.
«Ti amo», sussurrò.
«Anch'io».
«Lo so», e rise, sottovoce.
Voltai la testa lentamente... in cerca. Sapeva di cosa. Le sue labbra sfiorarono le mie, con delicatezza.
«Grazie», mormorai.
«Di niente».
Non ero più tanto presente. Combattevo stancamente con­tro lo stordimento. Mi restava una sola cosa da dirgli.
«Edward?». Pronunciare il suo nome correttamente era una faticaccia.
«Sì?».
«Io scommetto su Alice».
E la notte si chiuse su di me.



Edward mi aiutò a salire sulla sua auto, attento a non rovi­nare gli svolazzi di seta e chiffon del mio vestito, i fiori che ave­va appena appuntato sui miei riccioli acconciati alla perfezione e l'ingombrante ingessatura alla gamba. Ignorò la mia espres­sione scocciata.
Dopo avermi sistemata sul sedile, si accomodò al posto di guida e fece retromarcia sul viale lungo e stretto.
«Posso sapere quando ti prenderai la briga di rivelarmi cosa sta succedendo?», chiesi, scontrosa. Odiavo sinceramente le sorprese. E lui lo sapeva.
«È assurdo che tu non abbia ancora capito». Ridacchiava di un riso beffardo che mi tolse il respiro. Mi sarei mai abituata a tutta quella perfezione?
«Ti ho informato del fatto che sei molto carino, vero?».
«Sì». Sorrise ancora. Non l'avevo mai visto vestito di nero, e il contrasto dell'abito con la carnagione pallida rendeva la sua bellezza assolutamente surreale. Non potevo negarlo, benché il fatto che indossasse uno smoking mi rendesse molto nervosa.
Mai nervosa quanto mi rendeva il mio vestito. E la scarpa. Solo una, visto che l'altro piede era ancora alloggiato nell'inges­satura. Ma il tacco a spillo ancorato al mio piede solo da un laccetto di seta non mi avrebbe affatto aiutata a zampettare in giro.
«Non verrò mai più da nessuna parte con te, se mi toccherà di nuovo farmi trattare da Alice come Barbie-cavia-da-laboratorio», brontolai. Avevo trascorso quasi l'intera giornata nel bagno di Alice, tanto grande da potercisi perdere, vittima iner­me di lei che giocava alla parrucchiera e alla truccatrice. Ogni volta che mi lamentavo o le suggerivo qualcosa, mi pregava, vi­sto che non aveva memoria del suo essere stata umana, di non rovinarle quel divertimento. Poi mi aveva costretta a indossare il più ridicolo dei vestiti: blu scuro, pieno di trine e senza spal­line, con un sacco di etichette francesi che non capivo. Si addi­ceva più a una passerella di moda che a Forks. Il nostro abbi­gliamento formale non prometteva niente di buono, di questo ero sicura. A meno che... ma avevo paura di tradurre i miei so­spetti in parole o in pensieri.
[…]
«Mi stai portando al ballo di fine anno!», strillai.
Era un'ovvietà tale da mettermi in imbarazzo. Se ci avessi fatto caso, avrei notato la data sui manifesti che tappezzavano la scuola. Ma ero convinta che nemmeno per scherzo mi avreb­be fatto subire un'umiliazione del genere. Non mi conosceva?
Di sicuro non si aspettava una reazione tanto energica. Mi guardò serio, a denti stretti: «Non fare la difficile, Bella».
Lanciai uno sguardo al finestrino: eravamo già a metà strada.
«Perché mi stai facendo questo?», chiesi, terrorizzata.
Lui indicò il suo smoking. «Sinceramente, Bella, dove cre­devi che ti volessi portare?».
Ero mortificata. Prima di tutto, perché l'evidenza mi era sfuggita. E poi, perché i vaghi sospetti - speranze, in realtà - che avevo avuto nel pomeriggio, mentre Alice tentava di tra­sformarmi in una reginetta di bellezza, erano lontanissimi dal vero. Le mie speranze velate di paura, a quel punto, sembrava­no un'idiozia.
Avevo intuito che fosse un'occasione speciale. Ma non il ballo! Era l'ultimo dei miei pensieri.
Sentii lacrime di rabbia scorrermi sulle guance. Ricordai con fastidio che, contro le mie abitudini, avevo il mascara. Mi stro­finai subito sotto gli occhi per evitare di macchiarmi. La mano non era sporca: la saggia Alice aveva scelto cosmetici resistenti all'acqua.
«È ridicolo. Perché piangi?», chiese irritato.
«Perché mi hai fatta arrabbiare!».
«Bella». Mi colpì con tutta la forza dei suoi occhi dorati e ardenti.
«Cosa?», mormorai, turbata.
«Assecondami. Per piacere».
Il suo sguardo aveva sciolto tutta la mia furia. Era impossi­bile litigare, quando barava in quel modo. Mi arresi, tutt'altro che di buon grado.
«Bene», mormorai, incapace di squadrarlo come mi sarebbe piaciuto. «Te la do vinta. Ma vedrai. È un bel po' che non m'imbatto in una vera disgrazia. Come minimo mi romperò l'altra gamba. Guarda la scarpa! È una trappola mortale!». Gli mostrai la gamba buona per convincerlo.
«Mmm». La fissò molto più a lungo del necessario. «Stasera voglio ringraziare Alice, ricordamelo».
«Ci sarà anche lei?». L'idea mi dava un pò di sollievo.
«Assieme a Jasper, Emmett... e Rosalie».
Il sollievo svanì. Non avevo fatto il minimo progresso con Rosalie, benché i rapporti con il suo quasi marito fossero più che buoni. Emmett apprezzava la mia presenza: lo divertivo, forse per le mie bizzarre reazioni umane... o forse perché tro­vava buffo che inciampassi in continuazione. Rosalie si com­portava come se non esistessi. Scrollai il capo come per indiriz­zare i miei pensieri altrove e cambiai discorso.
«Charlie è al corrente di questo?» chiesi, diffidente.
«Certo». Poi soffocò una risata.
[…]
Edward scese dall'auto e venne ad aprirmi la portiera. Mi offrì la mano.
Rimasi testardamente seduta al mio posto, a braccia conser­te, beandomi in segreto della mia vanità. Il parcheggio era affollato di persone in abito da sera: tutti testimoni. Edward non avrebbe potuto estrarmi dall'auto con la forza, come non avrebbe esitato a fare se fossimo stati soli.
Sospirò: «Di fronte a un assassino sei coraggiosa come un leone, ma basta che qualcuno parli di ballare...». Scosse il capo.
Trasalii. Ballare.
«Bella, ti terrò lontana da tutti i pericoli, compresa te stessa. Non ti mollerò un attimo, lo prometto».
Ci pensai sopra, e subito mi sentii molto meglio. Me lo si leggeva in faccia.
«Forza, adesso», disse gentile. «Non sarà così male». Si chinò e con un braccio mi cinse la vita. Afferrai l'altra mano, e mi lasciai sollevare per uscire dall'auto.
Mi aiutò a zoppicare fino all'ingresso della scuola, tenendo­mi stretta.
[...]

«Edward». Dalla mia gola totalmente secca non uscì che un rantolo. «Sinceramente, non so ballare!». Sentivo il panico bruciarmi dentro.
«Sciocca, non preoccuparti», rispose. «Io sì». Guidò le mie mani a cingergli il collo, mi sollevò appena e fece scivolare i piedi sotto i miei.
E anche noi ci ritrovammo a roteare.
«Mi sembra di avere cinque anni», dissi ridendo, dopo qual­che minuto di quel valzer in cui ero trasportata senza sforzo.
«Non li dimostri», mormorò stringendomi di più a sé, e per un istante volai a qualche centimetro dal suolo.
Alice incrociò il mio sguardo e mi rivolse un sorriso di inco­raggiamento, che ricambiai. A sorpresa, mi resi conto che mi stavo divertendo... un po'.
«Okay, non è così male, lo ammetto».
[…]
Rimasti soli, mi sollevò tra le braccia e mi portò con sé attra­verso il prato ormai buio, fino alla panchina ai piedi dei cor­bezzoli. Si sedette e prese a cullarmi stringendomi contro il suo petto. La luna era già sorta, faceva capolino attraverso le nuvo­le sottili, e il volto di Edward brillava pallido alla luce bianca. Le labbra erano tese, gli occhi irrequieti.
«Allora?», chiesi io sottovoce.
Non mi ascoltava, guardava la luna.
«Di nuovo il crepuscolo», mormorò. «Un'altra fine. Ogni giorno deve finire, anche il più perfetto».
«Non è detto che tutto abbia una fine», mormorai tra me, improvvisamente tesa.
Lui lasciò sfuggire un sospiro.
Infine, rispose alla mia domanda, lentamente: «Ti ho porta­ta al ballo perché desidero che tu non ti perda niente. Non vo­glio che la mia presenza ti privi di nulla, finché mi è possibile. Voglio che tu sia umana. Voglio che la tua vita prosegua come se fossi morto nel 1918, come era mio destino».
Tremai a quelle parole e scossi il capo con stizza. «In quale strana dimensione parallela pensi che sarei venuta al ballo di mia spontanea volontà? Se tu non fossi mille volte più forte di me, non ti avrei mai lasciato fare».
Sulle sue labbra passò un sorriso, ma lo sguardo restò serio. «Non è andata così male, l'hai ammesso anche tu».
«Perché ero con te».
Per un po' restammo in silenzio: Edward guardava la luna, io guardavo lui. Come avrei voluto sapergli spiegare quanto poco mi interessasse una normale vita da umana.
«Mi dici una cosa?», chiese, sbirciandomi col suo solito mezzo sorriso sulle labbra.
«Non ti dico sempre tutto?».
«Promettilo», insistette.
Sapevo che me ne sarei pentita all'istante: «D'accordo».
«Mi sei sembrata sinceramente sorpresa quando hai capito che ti stavo portando qui...».
«Sì, lo ero», lo interruppi.
«Appunto... ma certo sospettavi qualcos'altro... Sono curio­so: per quale occasione pensavi che ti avessi fatto vestire così?».
Ecco, pentimento istantaneo. Increspai le labbra, esitante. «Non te lo dico».
«Hai promesso».
«Lo so».
«Che problema c'è?».
Di certo pensava che fosse soltanto per imbarazzo. «Non vorrei farti arrabbiare... o intristire».
Aggrottò le sopracciglia e ci pensò su. «Non m'importa. Per favore, dimmelo».
Feci un sospiro. Lui restò in attesa.
«Be'... davo per scontato che fosse un'occasione... speciale. Ma non immaginavo che fosse una mediocre faccenda uma­na... Il ballo di fine anno!», dissi sprezzante.
«Umana?», chiese, senza fare una piega. Aveva colto la pa­rola chiave.
Mi guardai il vestito, giocherellando con un lembo dello chiffon. Edward, muto, restava in attesa.
«Va bene». Mi decisi a confessare. «Ecco, speravo che aves­si cambiato idea... e che ti fossi deciso a cambiare me, dopo­tutto».
Sul suo viso apparve un arcobaleno di emozioni. Alcune erano riconoscibili: rabbia... tormento... ma alla fine si ricom­pose e la sua espressione si fece allegra, divertita.
«E secondo te quella sarebbe stata un'occasione da vestito da sera, eh?», disse, provocandomi, e aggiustò il risvolto della giacca da smoking.
Abbassai gli occhi per nascondere l'imbarazzo. «Non so come funzionano queste cose. A me, però, sembra più logico che per un ballo di fine anno». Non smetteva di sogghignare. «Non c'è niente da ridere», tagliai corto.
«No, hai ragione, certo che no», e il suo sorriso spari. «Però preferisco prenderla a ridere, piuttosto che credere che tu pos­sa dire sul serio».
«Ma io dico sul serio».
Fece un sospiro profondo. «Lo so. E ci terresti davvero?».
Nei suoi occhi si riaffacciò il tormento. Annuii, mordendo­mi un labbro.

«E allora preparati alla fine», mormorò, quasi tra sé. «Pre­parati al crepuscolo della tua vita appena iniziata. Preparati a rinunciare a tutto».
«Non è la fine, è l'inizio. È la luce dell'alba», lo corressi, sot­tovoce.
«Non ne sono degno», rispose lui, triste.
«Ricordi quando mi hai detto che non avevo una percezione chiara di me stessa?», chiesi, alzando le sopracciglia. «Eviden­temente tu sei cieco allo stesso modo».
«Io so ciò che sono».
Sospirai.
Ma nel suo umore volubile, si concentrò su di me. Strinse le labbra e iniziò a scrutarmi da vicino. Per qualche lunghissimo istante esaminò il mio viso.
«Perciò, ti senti pronta?».
«Ehm», deglutii. «Sì».
Sorrise e inclinò la testa fino a sfiorarmi con le labbra fredde l'incavo sotto il mento.
«Adesso?», disse in un soffio e mi fece sentire il fiato fresco sul collo. Involontariamente, rabbrividii.
«Sì», sussurrai, per nascondere che la voce mi tremava. Se pensava che stessi bluffando, si sbagliava di grosso. Avevo già deciso, ero sicura. Non importava che in quel momento fossi rigida come una tavola di legno, stringessi i pugni e respirassi a malapena...
Rise cupo e si allontanò. Sembrava deluso.
«Secondo te cederei così facilmente?», chiese sarcastico, ma con un filo di amarezza.
«Sognare non costa niente».
Sgranò gli occhi. «Questo sarebbe il tuo sogno? Diventare un mostro?».
«Non proprio», risposi, rabbuiandomi alla parola che aveva scelto. Mostro, figuriamoci. «Più che altro, sogno di restare con te per sempre».
La sua espressione cambiò, resa mesta e dolce dal sottile do­lore che m'incrinava la voce.
«Bella». Con le dita sfiorò il contorno delle mie labbra. «Sta­rò sempre con te. Non ti basta?».
Il sorriso mi si aprì sotto le sue dita. «Mi basta, per ora».
La mia tenacia lo fece spazientire. Nessuno dei due si sareb­be arreso, quella sera. Dalla sua bocca uscì uno sbuffo che so­migliava più a un ruggito.
Gli sfiorai il viso. «Stammi a sentire. Ti amo più di qualsiasi altra cosa al mondo, senza eccezioni. Non ti basta?».
«Sì, mi basta», rispose, sorridendo. «Mi basta, per sempre».
E mi sfiorò di nuovo il collo con le labbra fredde.

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