Come ogni sabato, appuntamento con la rubrica pioggia di parole, come annunciato la volta precedente, oggi è una puntata davvero speciale.
Ecco la prima parte del capitolo da cui tutto ha avuto inizio, che ha cambiato tutto.
Era il 2 giugno 2003 e Stephenie Meyer si svegliò con in mente solo una visione, un sogno tanto vivido da non poter essere ignorato e da cui è nata la nostra storia d'amore preferita.
Ecco a voi la prima parte del capitolo 13 di Twilight "Confessioni". Quante volte lo avrete letto e riletto...beh, questa è un'occasione in più per farlo;)
Enjoy!
Giusy;*

Di tanto in tanto le sue labbra si muovevano incredibilmente veloci, quasi tremassero. Quando glielo feci notare, mi disse che canticchiava tra sé, a voce troppo bassa perché io lo sentissi.
Anch'io mi godevo il sole, malgrado l'aria fosse troppo umida per i miei gusti. Mi sarebbe piaciuto sdraiarmi come lui e scaldarmi il viso. Invece rimasi rannicchiata con il mento sulle ginocchia, incapace di levargli gli occhi di dosso. Il vento era delicato, mi spettinava e scompigliava l'erba attorno alla sua sagoma immobile.
Il prato, che prima mi era sembrato così spettacolare, impallidiva di fronte a tanta magnificenza.
Esitai, presa anche allora dalla paura che lui si dissolvesse come un miraggio, troppo bello per essere vero... Ed esitando tesi un dito fino ad accarezzare il dorso della sua mano sfavillante, immobile a pochi centimetri da me. Quella trama perfetta, soffice come la seta, fredda come la pietra, non smetteva di meravigliarmi. Alzai lo sguardo e trovai i suoi occhi, aperti: quel giorno erano color miele, più chiari e caldi dopo la caccia. Agli angoli della sua bocca spuntò un sorriso.
«Non ti faccio paura?», chiese scherzoso, benché la sua voce morbida tradisse una curiosità sincera.
«Non più del solito».
Il sorriso si allargò: i suoi denti brillavano al sole.
Mi feci più vicina, e con la punta delle dita seguii il profilo del suo avambraccio. Mi accorsi che mi tremava la mano, e sapevo che non gli sarebbe sfuggito.
«Ti dà fastidio?», chiesi, poiché aveva richiuso gli occhi.
«No», disse, senza riaprirli. «Non hai idea di come mi senta».
Con la mano, delicatamente, seguii il profilo dei muscoli perfetti del braccio, lungo la debole traccia bluastra delle vene, vicino alla piega del gomito. Con l'altra mano cercai la sua. Lui intuì la mia mossa e mi offrì il palmo con uno di quei suoi movimenti invisibili, incredibilmente veloci. Mi spaventò, e per un istante le mie dita si arrestarono sul suo braccio.
«Scusa», mormorò. Alzai lo sguardo appena in tempo per osservarlo richiudere gli occhi. «È troppo facile essere me stesso, assieme a te».
Sollevai la sua mano, rigirandola e ammirando i riflessi del sole. L'avvicinai agli occhi per scoprirne le misteriose sfaccettature.
«Dimmi cosa pensi», disse in un sussurro. Incrociai il suo sguardo, improvvisamente concentrato su di me. «Mi sembra ancora così strano, non riuscire a capirlo».
«Noi comuni mortali ci sentiamo sempre così, sai?».
«Che vita dura». Mi stavo solo immaginando la sfumatura malinconica nella sua voce? «Non hai risposto».
«Mi chiedevo cosa stessi pensando tu...», poi esitai.
«E?».
«E desideravo poter credere che tu fossi vero. E mi auguravo di non avere paura».
«Non voglio che tu abbia paura». La sua voce era un sussurro esile. Sentii ciò che non poteva sostenere con certezza: che non c'era bisogno di avere paura, che non c'era niente da temere.
«Be', non è esattamente quella la paura che intendevo, malgrado sia un aspetto da non trascurare».
Si mise a sedere di scatto, facendo leva sul braccio destro con un movimento fulmineo, non percepibile, lasciando l'altra mano tra le mie. Il suo viso d'angelo fu a pochi centimetri dal mio. Certo avrei potuto - avrei dovuto - arretrare, di fronte a quell'intimità imprevista, ma non riuscii a muovermi. Ero ipnotizzata dai suoi occhi dorati.
«E allora, di cosa hai paura?», sussurrò, serio.
Non trovavo le parole. Come mi era accaduto una volta soltanto, sentivo il suo respiro fresco sul viso. Dolce, delizioso, il suo profumo mi metteva l'acquolina in bocca. Era diverso da qualsiasi altro odore. Istintivamente, senza pensarci, mi avvicinai ad annusarlo.
E lui spari, sfuggendo alla mia presa. Nell'istante che mi occorse per mettere a fuoco la scena, si era già allontanato di una decina di metri, ai bordi del prato, sotto l'ombra lunga di un grosso abete. Mi fissava, gli occhi cupi nel buio, sul viso un'espressione indecifrabile.
Non riuscii a trattenere uno sguardo addolorato e sorpreso. Le mani, vuote, mi bruciavano.
«Mi... dispiace... Edward», sussurrai. Sapevo che riusciva a sentirmi.
«Dammi solo un momento», disse, con un tono appena sufficiente per le mie orecchie meno sensibili. Restai immobile.
Dopo dieci secondi incredibilmente lunghi tornò indietro, più lentamente del suo solito. Si fermò a pochi metri da me e si lasciò cadere con grazia sul prato, sedendosi a gambe incrociate. I suoi occhi non mollarono i miei neanche per un istante. Fece due respiri profondi e sorrise per farsi perdonare.
«Mi dispiace tanto. Capiresti cosa intendo se ti dicessi che la carne è debole?».
Annuii, incapace di sorridere della battuta. Più mi rendevo conto del pericolo, più sentivo scorrere l'adrenalina. Ne sentiva l'odore fin da dov'era seduto. La sua espressione divenne un sorriso sarcastico.
«Sono il miglior predatore del mondo, no? Tutto, di me, ti attrae: la voce, il viso, persino l'odore. Come se ce ne fosse bisogno!». A sorpresa, scattò in piedi e schizzò via, scomparendo in un istante dalla visuale, per riapparire sotto lo stesso albero di poco prima, dopo aver percorso il perimetro della radura in mezzo secondo.
«Come se tu potessi fuggire», rise, maligno.
Afferrò un ramo dalla circonferenza di mezzo metro e lo divelse senza sforzo dal tronco di un abete rosso. Lo tenne in mano, in equilibrio per un momento, e poi lo lanciò a velocità impressionante verso un altro albero, contro cui si sbriciolò, scuotendolo.
Poi, rieccolo di fronte a me, a pochi centimetri, immobile come una pietra.
«Come se potessi combattere ad armi pari», disse, delicato.
Restai seduta senza muovermi, non avevo mai avuto così paura di lui. Non avevo mai visto ciò che nascondeva dietro quella facciata così ben costruita. Non era mai stato meno umano di così... né più bello. Sedevo lì, il viso cinereo e gli occhi sbarrati, un uccellino ipnotizzato dallo sguardo di un serpente.
I suoi begli occhi sembravano accesi dall'eccitazione. Poi, con il passare dei secondi, si spensero. La sua espressione, piano piano, si trasformò in una maschera di antica tristezza.
«Non avere paura», sussurrò, con voce vellutata e, suo malgrado, seducente. «Prometto... giuro che non ti farò del male». Sembrava più intento ad autoconvincersi che a convincere me.
«Non avere paura», mormorò di nuovo, avvicinandosi a me con lentezza esagerata. Si sedette con un movimento sinuoso e deliberatamente posato, fino ad avvicinare il suo viso al mio, a pochi centimetri di distanza.
«Per favore, perdonami», disse, con aria formale. «Sono capace di controllarmi. Mi hai preso in contropiede. Ma adesso sarò impeccabile».
Attese la mia risposta, ma ero paralizzata.
«Sul serio, oggi non ho così tanta sete». Mi strizzò l'occhio.
Non gli rifiutati una risata, benché debole e forzata.
«Stai bene?», chiese, con dolcezza, avvicinandosi per offrirmi di nuovo la mano marmorea.
Osservai la pelle liscia e fredda, poi lo guardai negli occhi. Erano dolci, contriti. Tornai alla sua mano, e ripresi a seguirne i contorni con la punta delle dita. Alzai lo sguardo e azzardai un sorriso timido.
Ricambiò, illuminandosi tanto da farmi perdere la testa.
«Cosa stavamo dicendo, prima che mi comportassi in maniera così sgarbata?», chiese, con la cadenza gentile di un altro secolo.
«Sinceramente non ricordo».
Sorrise, ma nei suoi occhi c'era un filo di imbarazzo: «Credo che stessimo parlando di ciò che ti mette paura, a parte le ragioni più ovvie».
«Ah, sì».
«Allora?».
Tornai a osservare la sua mano, disegnando ghirigori immaginari sul palmo liscio e luccicante. I secondi passavano.
«Com'è facile vanificare i miei sforzi», sospirò. Lo guardai negli occhi, e all'improvviso capii che la situazione in cui ci trovavamo era nuova per lui quanto per me. Malgrado gli innumerevoli anni di esperienza che probabilmente aveva, era in difficoltà. Questo pensiero mi diede coraggio.
«Avevo paura perché... per, ecco, ovvi motivi, non posso stare con te. Ma d'altro canto vorrei stare con te molto, molto più del lecito». Non staccavo gli occhi dalle sue mani. Era difficile dire certe cose ad alta voce.
«Sì». Parlò lentamente: «Non c'è dubbio, è una paura legittima, voler stare con me. È tutto fuorché una scelta vantaggiosa».
Lo guardai, accigliata.
«Avrei dovuto lasciarti perdere tempo fa», sospirò. «Dovrei lasciarti, adesso. Ma non so se ci riuscirei».
«Non voglio che tu mi lasci», mormorai accorata, abbassando lo sguardo per l'ennesima volta.
«Il che è precisamente la migliore ragione per andarmene. Ma non preoccuparti, sono una creatura essenzialmente egoista. Desidero troppo la tua compagnia per comportarmi come dovrei».
«Ne sono lieta».
«Non esserlo!». Ritrasse la mano, più dolcemente di prima; il suo tono di voce era più aspro del solito, ma restava più meraviglioso di qualsiasi voce umana. Era difficile seguire i suoi sbalzi di umore, restavo sempre indietro, stupita.
«Non è solo la tua compagnia che amo! Non dimenticarlo mai. Non dimenticare mai che sono più pericoloso per te che per chiunque altro». Osservava un punto indefinito della foresta.
Per qualche istante meditai in silenzio.
«Non credo di avere capito cosa intendi, specialmente l'ultima frase», dissi.
Tornò a fissarmi e sorrise, dopo l'ennesimo cambiamento di umore.
«Come faccio a spiegartelo senza metterti di nuovo paura... vediamo». Sovrappensiero mi offrì di nuovo la mano. La strinsi forte fra le mie, e il suo sguardo le contemplò.
«È straordinariamente piacevole il calore», sospirò.
Un momento dopo, riordinò le idee.
«Hai presente, i gusti delle persone? Ad alcune piace il gelato al cioccolato, ad altre la fragola?».
Annuii.
«Scusa l'analogia con il cibo, non trovo una metafora migliore».
Al mio sorriso seguì subito il suo, con un filo di imbarazzo.
«Vedi, ogni persona ha un suo odore, un'essenza particolare. Se chiudessi un alcolizzato in una stanza piena di lattine di birra sgasata, le berrebbe senza badarci. Se invece fosse un alcolista pentito, se decidesse di non berle, potrebbe riuscirci facilmente. Ora, se poniamo nella stanza un solo bicchiere di liquore invecchiato cento anni, il cognac migliore, il più raro di tutti, che diffonde ovunque il suo profumo... come credi che si comporterebbe il nostro alcolizzato?».
Restammo zitti, guardandoci negli occhi, cercando di leggerci nel pensiero a vicenda.
Fu lui a riprendere il discorso.
«Forse non è la metafora migliore. Forse rifiutare il cognac sarebbe facile. Forse dovrei trasformare il nostro alcolista in un eroinomane».

«Cioè, vorresti dirmi che sono la tua qualità preferita di eroina?», dissi, nel tentativo di alleggerire l'atmosfera.
Sorrise all'istante, sembrava apprezzare lo sforzo. «Ecco, tu sei esattamente la mia qualità preferita di eroina».
«Succede spesso?», chiesi.
Alzò lo sguardo sopra le cime degli alberi, pensando a una risposta.
«Ne ho parlato con i miei fratelli». Non staccava gli occhi dall'orizzonte. «Secondo Jasper, siete tutti uguali. È stato l'ultimo a unirsi alla nostra famiglia e l'astinenza lo fa soffrire ancora molto. Non ha ancora imparato a distinguere tra i diversi odori e sapori». Mi lanciò un'occhiata timida.
«Scusa», disse.
«Non importa. Ti prego, non preoccuparti di offendermi, di spaventarmi o di qualsiasi altra cosa. È il tuo modo di ragionare. Riesco a capire, o perlomeno posso provarci. Però, ti prego, spiegami tutto come puoi».
Fece un respiro profondo e tornò a guardare il cielo.
«Perciò, Jasper non ha saputo dirmi con certezza se gli sia mai capitato di conoscere qualcuna che fosse...», esitò, in cerca della parola giusta, «attraente come tu sei per me. Il che mi fa ritenere che non l'abbia mai conosciuta. Emmett è dei nostri da più tempo, per così dire, e ha capito cosa intendevo. A lui è capitato due volte, una più forte dell'altra».
«E a te?».
«Mai».
Per un istante quella parola restò a mezz'aria, nella brezza calda.
«Come si è comportato Emmett?», chiesi, per spezzare il silenzio.
Era la domanda sbagliata. Il suo volto si fece scuro, la sua mano si strinse in un pugno. Guardò altrove. Restai in attesa di una risposta che non arrivò.
«Credo di aver capito», conclusi.
Alzò gli occhi: la sua espressione era malinconica, implorante.
«Anche i più forti di noi possono smarrire la strada, no?».
«Cosa stai chiedendo? Il mio permesso?». Fui più pungente di quanto intendessi essere. Cercai di proseguire con maggiore gentilezza; immaginavo quanto potesse costargli tutta quella sincerità. «Voglio dire, non c'è proprio speranza, allora?». Con quanta calma discutevo della mia morte!
«No, no!». Si pentì subito di ciò che aveva detto. «Certo che c'è speranza! Voglio dire, è ovvio, non...», ma non terminò la frase. Il suo sguardo bruciava dentro il mio. «Per noi è diverso. Emmett... quelle erano sconosciute, incontrate per caso. È accaduto tanto tempo fa, e lui non era... allenato e attento come ora».
Rimase zitto a osservarmi, mentre meditavo sulle sue parole.
«Perciò, se ci fossimo incrociati... in un vicolo buio, o qualcosa del genere...». La mia voce si affievolì.
«Mi c'è voluta tutta la forza che avevo per non assalirti durante la prima lezione, in mezzo agli altri ragazzi, e...», rimase in silenzio, distogliendo lo sguardo. «Quando mi sei passata accanto, ho rischiato di rovinare in un istante tutto ciò che Carlisle ha costruito per noi. Se non avessi messo a tacere così a lungo la mia sete negli ultimi, be', troppi anni, non sarei riuscito a trattenermi». Rivolse il suo sguardo inquieto agli alberi.
Poi mi guardò torvo, rievocando, come me, la scena. «Avrai creduto che fossi posseduto dal demonio».
«Non riuscivo a capire come potessi odiarmi così, e perché poi, dal primo istante...».
«Ai miei occhi eri una specie di demone, sorto dal mio inferno privato per distruggermi. L'odore soave della tua pelle... Quel primo giorno ho temuto di perdere definitivamente la testa. In quella singola ora ho pensato a cento maniere diverse di portarti via dall'aula, di isolarti. E mi sono opposto a tutte, temendo le conseguenze che avrebbero colpito la mia famiglia. Dovevo scappare, andarmene prima di pronunciare le parole che ti avrebbero obbligata a seguirmi...».
Alzò gli occhi sul mio viso sconcertato, mentre cercavo di mettere a fuoco quei suoi ricordi amari. Nascosti dalle ciglia, i suoi occhi dorati bruciavano, ipnotici e mortali.
«Mi avresti seguita, te lo garantisco».
Cercai di rispondere con calma: «Senza dubbio».
Tornò alle mie mani torvo, liberandomi dal suo sguardo magnetico. «E poi, proprio mentre cercavo inutilmente di cambiare l'orario settimanale per poterti evitare, rieccoti. In quella stanzetta calda il tuo profumo mi faceva impazzire, in quel momento sono stato lì lì per prenderti. C'era soltanto quell'altra fragile umana, me ne sarei sbarazzato senza difficoltà».
Malgrado il sole caldo, sentii un brivido: rivedendo i miei ricordi attraverso i suoi occhi mi rendevo finalmente conto del pericolo corso. Povera signorina Cope: il pensiero di quanto fossi stata vicina a causarne la morte mi provocò un altro brivido.
«Ma ho resistito, non so come. Mi sono imposto di non aspettarti fuori da scuola, di non seguirti. All'esterno la tua scia era più debole, perciò sono riuscito a pensare lucidamente, a prendere la decisione giusta. Ho accompagnato gli altri a casa - mi vergognavo troppo di raccontare ciò che mi stava succedendo, avevano soltanto intuito che qualcosa non andava - e sono corso da Carlisle, all'ospedale, ad annunciargli che me ne sarei andato di casa».
Rimasi a guardarlo, sorpresa.
«Ho scambiato la mia auto con la sua: aveva appena fatto il pieno, e non volevo fermarmi. Non ho osato tornare a casa ad affrontare Esme. Lei non mi avrebbe lasciato andare, non senza prima farmi una scenata. Avrebbe cercato di convincermi che non ce n'era bisogno...».
«Il mattino dopo ero in Alaska». Sembrava si vergognasse di qualcosa che sentiva come una codardia. «Ci sono rimasto per due giorni, da alcune vecchie conoscenze... ma avevo nostalgia di casa. Ero tormentato dal pensiero di avere sconvolto Esme e il resto della mia famiglia adottiva. In mezzo all'aria pura di montagna era difficile credere che tu fossi così irresistibile. Mi sono convinto che la fuga fosse una scelta da debole. Avevo già lottato contro la tentazione, in precedenza, ma anche se non era mai stata così grande, così violenta, sapevo di essere forte. Chi eri tu, piccola e insignificante ragazza», e fece un ghigno, «per scacciarmi dal posto in cui desideravo vivere? Perciò sono tornato...». Il suo sguardo si perse all'orizzonte.
Ero senza parole.
«Ho preso tutte le precauzioni possibili, sono andato a caccia, mi sono nutrito più del solito, prima di tornare a incontrarti. Ero sicuro di essere tanto forte da poterti trattare come un qualsiasi essere umano. Sono stato molto arrogante.
Un'altra grossa complicazione, in tutto questo, è stata la mia incapacità di leggerti nel pensiero, il non poter conoscere le tue reazioni. Non ero abituato a dover ricorrere a certi sotterfugi, come leggere le tue parole nel pensiero di Jessica... non è una persona granché originale, e non sai che noia dovermici adattare. Per giunta, non capivo se le tue parole fossero sincere. Tutto ciò è stato tremendamente irritante». Quel ricordo lo rese ancora più serio.
«Desideravo farti dimenticare il mio comportamento del primo giorno, se possibile, perciò ho tentato di parlare con te come facevo con chiunque altro. A dire la verità, morivo dalla voglia di decifrare qualche tuo pensiero. Ma eri troppo interessante, e mi sono perso nel tuo modo di fare... Poi di tanto in tanto facevi un gesto con la mano, o ti sistemavi i capelli, e l'odore tornava a colpirmi...
È stato a quel punto che hai rischiato di morire schiacciata nell'incidente, proprio sotto i miei occhi. Poco dopo, ho architettato un alibi perfetto per giustificare a me stesso il mio comportamento: se non ti avessi salvata, di fronte al tuo sangue non sarei riuscito a nascondere la mia vera natura. Ma questo l'ho pensato dopo. In quel momento, l'unica cosa che avevo in mente era: "Non lei"».
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