sabato 10 ottobre 2009

Il primo bacio

Buongiornoo twilighters!
Come ogni sabato, appuntamento con la rubrica pioggia di parole, e oggi continuiamo un capitolo davvero speciale.
Ecco la seconda parte del capitolo più importante, perchè da questo ha avuto tutto inizio.

Ecco a voi la conclusione del capitolo 13 di Twilight "Confessioni".
Il titolo vi fa capire cosa aspettarvi...allora che aspettate, rileggetelo con noi;)


Enjoy!
Giusy;*


Chiuse gli occhi, perso nello sforzo della confessione. Lo avevo ascoltato con più curiosità che razionalità. Il buon senso mi diceva che avrei dovuto esserne terrorizzata. Riuscire a comprenderlo fu un sollievo. E un'ondata di compassione per la sua sofferenza mi pervase, anche mentre ammetteva di aver desiderato la mia vita.
Infine, riuscii a spiccicare parola, malgrado la mia voce fos­se un sussurro: «E in ospedale?».
M'inchiodò con lo sguardo. «Ero scioccato. Non riuscivo a credere di avere corso quel rischio, di averlo fatto correre a tut­ti i miei, per proteggere proprio te. Come se ci fosse bisogno di un motivo in più per ucciderti». Nell'istante in cui questa pa­rola gli uscì di bocca, scattammo entrambi. «Ma l'effetto è sta­to il contrario», aggiunse immediatamente. «Ho litigato con Rosalie, Emmett e Jasper, che sostenevano fosse il momento giusto... il peggior litigio da quando viviamo assieme. Carlisle e Alice erano dalla mia parte». Sorrise, nominando la sorella. Non riuscivo a immaginare perché. «Secondo Esme dovevo fare tutto il possibile per rimanere». Scosse il capo, benevolo.
«Il giorno dopo ho origliato le menti di tutte le persone con cui avevi parlato, stupito che avessi mantenuto la parola. Non ti avevo affatto capita. Ma sapevo che non potevo lasciarmi coin­volgere ulteriormente da te. Ho fatto del mio meglio per starti lontano. E ogni giorno il profumo della tua pelle, del tuo respi­ro, dei tuoi capelli... mi colpiva forte, come la prima volta».
Incrociò il mio sguardo, sembrava sorprendentemente tenero.
«E la cosa più assurda è che mi sarei curato meno di rovi­narci tutti il primo giorno, piuttosto che farti del male qui, ora, senza testimoni, senza nessuno in grado di fermarmi».
Fui abbastanza comprensiva da doverglielo chiedere: «Per­ché?».
«Isabella». Pronunciò il mio nome completo con attenzio­ne; poi, con la mano libera, giocò con i miei capelli, scompi­gliandoli. Quel contatto così casuale mi scatenò una tempesta dentro. «Bella, arriverei a odiare me stesso, se dovessi farti del male. Non hai idea di che tormento sia stato», abbassò gli oc­chi, intimorito, «il pensiero di te immobile, bianca, fredda... di non vederti più avvampare di rossore, di non poter più coglie­re la scintilla nel tuo sguardo quando capisci che ti sto pren­dendo in giro... non sarei in grado di sopportarlo». Mi fissò con i suoi occhi meravigliosi e angosciati. «Ora sei la cosa più importante per me. La cosa più importante di tutta la mia vita».
Il rapido cambio di direzione nella conversazione mi fece gi­rare la testa. Eravamo passati dalla spensierata constatazione della mia imminente scomparsa alle dichiarazioni ufficiali. Aspettava una risposta, e malgrado non levassi lo sguardo dal­le nostre mani intrecciate, sentivo i suoi occhi dorati addosso.
«Sai già cosa provo, ovviamente», risposi, infine. «Sono qui, il che, in due parole, significa che preferirei morire, piuttosto che rinunciare a te». Abbassai lo sguardo. «Sono un'idiota».
«Certo che lo sei», ribadì lui, con una risata. Lo fissai negli occhi, e anch'io iniziai a ridere. Ridevamo di quel momento così folle e totalmente imprevedibile.
«Così, il leone si innamorò dell'agnello...», mormorò. Guardai altrove nascondendogli i miei occhi, elettrizzata da quelle parole.
«Che agnello stupido», sospirai.
«Che leone pazzo e masochista». Per un istante interminabi­le scrutò le ombre della foresta, preso da chissà quali pensieri.
«Perché...?». Tentai di parlare ma non ero sicura di come proseguire.
Mi guardò e sorrise: il suo viso, i suoi denti, sfavillavano al sole.
«Sì?».
«Dimmi perché prima sei fuggito in un lampo da me».
Il suo sorriso si spense. «Lo sai, il perché».
«No, voglio dire, cos'ho fatto di preciso? È meglio che stia in guardia, per imparare cosa non posso fare. Questo, per esem­pio», gli accarezzai il dorso della mano, «non crea problemi».
Sorrise di nuovo. «Non hai fatto niente di male, Bella. È sta­ta colpa mia».
«Ma se posso, voglio aiutarti, voglio renderti la vita meno difficile».
«Be'...», meditò, per un istante. «È stata una questione di vicinanza. Gli esseri umani sono per la maggior parte natural­mente timidi con noi, la nostra alterità li allontana... Non mi aspettavo che ti avvicinassi così tanto. E poi il profumo del tuo collo». Non aggiunse altro, cercava di capire se mi avesse tur­bata.
«D'accordo», risposi decisa, desiderosa di alleggerire l'at­mosfera improvvisamente plumbea. Alzai il colletto fino al mento. «Niente collo scoperto».
Funzionò: lo feci ridere. «No, davvero, più che altro è stata la sorpresa».
Alzò la mano libera e la posò dolcemente sul mio collo. Ero immobile, il suo tocco ghiacciato agiva come un allarme natu­rale - un allarme che mi avvertiva di farmi prendere dal terro­re - ma non sentivo un briciolo di paura. Dentro di me c'erano ben altre sensazioni...
«Vedi? Nessun problema».
Il cuore mi batteva all'impazzata, non so cos'avrei dato per rallentarlo, conscia che il suo pulsare così potente nelle vene avrebbe creato qualche problema. Di sicuro riusciva a sentirlo.
«Resta ferma», sussurrò, come se non fossi già impietrita.
Lentamente, senza staccare gli occhi da me, si avvicinò. Poi, all'improvviso, ma con grande delicatezza, posò la guancia fredda nell'incavo del mio mento, sulla gola. Anche se avessi desiderato muovermi, non ci sarei riuscita. Ascoltai il rumore del suo respiro regolare, guardando il sole e il vento giocare con quei capelli di bronzo, il più umano dei suoi tratti.
Con lentezza calcolata, fece scivolare le mani lungo il mio col­lo. Sentii un brivido e mi accorsi che tratteneva il respiro. Ma non si fermava, scorreva morbidamente sulle spalle, poi si arrestò.
Spostò il viso di lato, sfiorandomi la clavicola con il naso. Infine, si accucciò con il volto appoggiato dolcemente al mio petto.
Ascoltava il mio cuore.
Gli sfuggì un sospiro.
Non so per quanto tempo restammo immobili in quella po­sizione. Ore intere, per quel che mi sembrava. Alla fine, il rit­mo del mio cuore rallentò, ma lui non disse una parola e conti­nuò a stringermi a sé. Sapevo che avrebbe potuto perdere il controllo in qualsiasi momento e la mia vita sarebbe finita lì, tanto in fretta da non accorgermene neanche. Eppure, non riu­scivo a provare paura. Sentivo il contatto con lui e non pensa­vo ad altro.
Infine, troppo presto, mollò la presa.
Il suo sguardo era quieto.
«Non sarà più così difficile», disse, soddisfatto.
«È stata dura?».
«Non terribile come immaginavo. E per te?».
«No, niente affatto terribile... per me».
Sorrise al mio tono. «Hai capito cosa intendo».
Sorrisi.
«Vieni qui». Mi prese la mano e se la avvicinò alla guancia. «Senti?».
La sua pelle, di solito ghiacciata, era quasi calda. Me ne ac­corsi però a malapena, perché stavo sfiorando il suo viso, un gesto che desideravo fare dal primo giorno.
«Resta lì», sussurrai.
Nessuno era capace di restare immobile come Edward. Chiuse gli occhi e rimase fermo come una pietra, una scultura in mano mia.
Mi muovevo ancora più lentamente di lui, evitando gesti im­provvisi. Gli carezzai la guancia, sfiorai delicatamente le palpe­bre e l'ombra violacea dell'incavo attorno all'occhio. Seguii il profilo del suo naso perfetto, e poi, con la massima delicatezza, delle labbra impeccabili. Al contatto con la mia mano si di­schiusero, e sentii il suo respiro freddo sulla punta delle dita. Desideravo avvicinarmi, annusare il suo profumo. Perciò levai la mano e mi scostai un poco: non volevo esagerare.
Aprì gli occhi, e il suo sguardo affamato scatenò in me un'ondata di paura, però mi chiuse la bocca dello stomaco e mandò di nuovo il mio cuore a mille.
La sua voce era un sussurro: «Vorrei... vorrei sentissi la complessità... la confusione... che provo. Vorrei che potessi comprendere».
Mi sfiorò i capelli e me li strofinò sul viso, con delicatezza.
«Spiegamelo».
«Non credo che ci riuscirei. Te l'ho detto, da una parte sento fame di te, anzi sete, da creatura deplorabile quale sono. E que­sto lo puoi capire, in un certo senso». Abbozzò un sorriso. «An­che se, dal momento che non sei dipendente da nessuna sostanza illegale, probabilmente non te ne rendi conto fino in fondo».
Mi sfiorò le labbra, allora, e avvertii l'ennesimo brivido. «Ma... ci sono altri tipi di fame. E quelli non riesco a interpre­tarli, mi sono del tutto estranei».
«Forse riesco a capire questo più di quanto ti aspetti».
«Non sono abituato a sentirmi tanto umano. Funziona sem­pre così?».
«Per me? No, mai. Mai prima di oggi».
Prese le mie mani tra le sue; sembravano tanto fragili, in quella stretta d'acciaio.
«Non so come fare a starti accanto in questo modo», ammi­se. «Non sono sicuro di esserne capace».
Mi avvicinai molto lentamente, tranquillizzandolo con lo sguardo. Posai la guancia sul suo petto marmoreo. Non senti­vo che il suo respiro.
«Così va bene», sospirai, chiudendo gli occhi.
Con un gesto molto umano, mi abbracciò e avvicinò il viso ai miei capelli.
«Sei molto più bravo di quanto tu voglia credere».
«Possiedo ancora istinti umani. Sono sepolti da qualche parte, ma ci sono».
Restammo in quella posizione per un altro momento eterno; chissà se anche lui, come me, desiderava che non finisse mai. Purtroppo la luce stava calando, le ombre della foresta si avvi­cinavano. Mi lasciai sfuggire un sospiro.
«Devi andare».
«Pensavo non fossi capace di leggermi nel pensiero».
«Comincio a vederci qualcosa». Lo sentii sorridere.
Lo guardai in faccia, le sue mani mi tenevano per le spalle.
«Posso mostrarti una cosa?», chiese, lo sguardo acceso da un entusiasmo improvviso.
«Cosa?».
«Il modo in cui io mi sposto nella foresta». Notò subito la mia espressione allibita. «Non preoccuparti, non c'è pericolo e torne­remo al pick-up molto più velocemente». Con le labbra disegnò quel suo sorriso sghembo, così magnifico da fermarmi il cuore.
«Ti trasformi in un pipistrello?», chiesi, intimorita.
Rise, più forte che mai. «Come se non l'avessi già sentita!».
«Già, immagino che te lo dicano tutti».
«E dai, fifona, salta in spalla».
Aspettai un istante, per capire se stesse scherzando, ma evi­dentemente faceva sul serio. Sorrise della mia incertezza e aprì le braccia per incoraggiarmi. Il mio cuore reagì; malgrado non potesse leggermi nel pensiero, il battito accelerato mi tradiva. Mi prese per mano e mi aiutò ad aggrapparmi a lui, senza trop­po sforzo. Mi avvinghiai con una presa tanto stretta di braccia e gambe da poter soffocare un comune mortale. Era come ag­grapparsi a una roccia.
«Sono un po' più pesante di un normale zaino».
«Figuriamoci!», sbottò. Di certo stava alzando gli occhi al cielo. Non l'avevo mai visto tanto di buonumore.
Mi sorprese quando all'improvviso afferrò la mia mano, se la premette contro il naso e inspirò forte.
«Sempre più facile», mormorò.
E poi iniziò a correre.
La paura di morire che avevo sentito poco prima era stata niente, a confronto di come mi sentii in quel momento.
Sfrecciava tra le piante del sottobosco denso e scuro come un proiettile, come un fantasma. In assoluto silenzio, come se i suoi piedi restassero sempre sollevati da terra. Respirava rego­larmente, senza sforzo. Ma gli alberi ci passavano davanti a ve­locità mortale, mancandoci ogni volta di pochi centimetri.
Ero troppo terrorizzata per chiudere gli occhi, malgrado l'a­ria fredda della foresta frustasse violenta il mio viso. Era come aprire ingenuamente il finestrino di un aereo in volo. Per la prima volta in vita mia, sentii la fiacchezza e le vertigini tipiche della nausea da movimento.
Tutto finì in un attimo. Quel mattino avevamo camminato per ore per raggiungere il prato di Edward, e adesso, in pochi minuti, rieccoci al pick-up.
«Elettrizzante, eh?». Era entusiasta, su di giri.
Restò immobile, in attesa che scendessi. Ci provai, ma i mu­scoli non rispondevano. Tenevo braccia e gambe intrecciate a lui, e la testa mi girava fastidiosamente.
«Bella?», chiese, con una certa ansia.
«Credo di dovermi sdraiare», dissi ansimando.
«Oh, scusa». Attese inutilmente che mi muovessi.
«Ho bisogno di aiuto, credo».
Rise sotto i baffi, e con delicatezza sciolse la mia presa strangolatrice. Non c'era modo di resistere alla forza delle sue mani d'acciaio. Mi prese e mi fece scivolare di lato, cullandomi come una bambina. Mi trattenne per un istante, poi mi posò dolce­mente sulle foglie elastiche delle felci.
«Come va?».
Non riuscivo a capirlo neanch'io, con la testa che girava in quella maniera. «Credo di avere un po' di nausea».
«Tieni la testa tra le ginocchia».
Ci provai, e funzionava. Respiravo lentamente, con la testa immobilizzata. Sentivo Edward seduto al mio fianco. Dopo qualche minuto, riuscii a sollevare il capo. Un sibilo vuoto mi ronzava nelle orecchie.
«Forse non è stata una grande idea».
Cercai di non demoralizzarlo, ma avevo perso la voce. «No, è stato parecchio interessante».
«Ma dai! Sei pallida come un fantasma... anzi, sei pallida come me!».
«Forse avrei dovuto chiudere gli occhi».
«La prossima volta ricordatelo».
«Ma quale prossima volta?!».
Rise, non aveva perso il buonumore.
«Spaccone», bofonchiai.
«Apri gli occhi, Bella», disse, sottovoce.
E il suo viso era lì accanto a pochi centimetri dal mio. La sua bellezza non smetteva di sconvolgermi: era troppo, un ec­cesso a cui non riuscivo ad abituarmi.
«Mentre correvo, pensavo...».
«A non centrare gli alberi, spero».
«Sciocca», sghignazzò. «Correre per me è un gesto automa­tico, non è qualcosa a cui devo stare attento».
«Spaccone».
Sorrise.
«Dicevo... Pensavo a una cosa che vorrei provare». Di nuo­vo prese il mio viso tra le mani.
Mi tolse il fiato.
Sembrava esitare, ma non in maniera normale.
Non come un uomo che sta per baciare una donna, incerto della reazione e della risposta di lei, che volesse prolungare quell'istante, il momento perfetto dell'attesa impaziente che spesso è meglio del bacio stesso.
Edward esitava per mettersi alla prova, per non correre ri­schi ed essere certo di saper controllare i propri desideri.
Poi posò le sue labbra di marmo freddo sulle mie.
Ciò che nessuno di noi prevedeva fu la mia reazione.
Mi sentii ribollire il sangue e bruciare le labbra. Il mio respi­ro si trasformò in un affanno incontrollabile. Intrecciai le dita ai suoi capelli, stringendolo a me. Dischiusi le labbra per respi­rarne il profumo inebriante.
Immediatamente lo sentii trasformarsi in pietra insensibile. Con le mani, delicatamente ma senza che potessi oppormi, al­lontanò il mio viso dal suo. Aprii gli occhi e lo vidi, guardingo.
«Ops».
«"Ops" è troppo poco».
I suoi occhi ardevano, stringeva i denti sforzandosi di resi­stere all'istinto, eppure non perse un briciolo di contegno. Tratteneva il mio viso a pochi centimetri dal suo, inchiodando­mi con uno sguardo ipnotico.
«Devo...?», e cercai di liberarmi dalla presa per lasciargli un po' di spazio.
Non mi permise di muovermi di un millimetro.
«No, è sopportabile. Per favore, aspetta un attimo». Il suo tono di voce era aggraziato, controllato.
Osservai l'eccitazione nei suoi occhi attenuarsi e ammorbi­dirsi.
Poi, a sorpresa, sfoderò un sorriso malizioso.
«Ecco», disse, palesemente soddisfatto di se stesso.
«Sopportabile?».
Liberò una risata fragorosa. «Sono più forte di quanto pen­sassi. È una bella notizia».
«Mi piacerebbe poter pensare altrettanto di me».
«E dai, dopotutto sei soltanto un essere umano».
«Tante grazie», risposi acida.
Con uno dei suoi movimenti leggiadri e istantanei scattò in piedi. Mi tese una mano con un gesto inaspettato. Ero abituata all'assenza di contatto tra noi. Afferrai il suo palmo ghiacciato, avevo più bisogno di sostegno di quanto immaginassi. Non avevo ancora ritrovato l'equilibrio.
«Ti senti ancora indebolita dalla corsa? O è stato il mio ba­cio da maestro?». Scoppiò a ridere, spensierato e umano come non mai, senza un'ombra di inquietudine sul volto serafico. Era un Edward diverso da quello che avevo conosciuto. E ciò aumentava la mia infatuazione. A quel punto, separarmi da lui sarebbe stato un dolore fisico.
«Non so, mi sento ancora imbambolata», riuscii a risponde­re. «L'uno e l'altro, penso».
«Forse è meglio che guidi io».
«Sei pazzo?».
«Sono un pilota migliore di te nella tua forma più smaglian­te. Hai i riflessi molto più lenti dei miei».
«Certo, ma non credo che i miei nervi o il mio pick-up pos­sano farcela a sostenerti».
«E dai, Bella, un po' di fiducia».
Stringevo forte la chiave del pick-up nella tasca dei pantalo­ni. Serrai le labbra e scossi la testa sorridendo.
«No. Nemmeno per sogno».
Mi guardò incredulo.
Allora mi avvicinai al posto di guida, cercando di scansare Edward. Forse mi avrebbe lasciata passare, se non avessi bar­collato in quel modo. O forse no. Le sue braccia attorno alla vita furono una trappola a cui non riuscii a sfuggire.
«Bella, fino a questo momento il mio sforzo personale nel tentativo di salvarti la vita è stato enorme. Non permetterò cer­to che tu ti metta al volante nel momento in cui non riesci nemmeno a camminare in linea retta. Oltretutto, gli amici non lasciano guidare chi ha bevuto, lo sai». Sorrise della sua battu­ta. Sentivo l'aroma dolce e irresistibile irradiato dal suo petto.
«Pensi che sia ubriaca?».
«Sei intossicata dalla mia presenza». Riecco quel ghigno ma­lizioso.
«Non ti posso dare torto». Non avevo scelta: era inutile gi­rarci intorno e ostinarmi a resistergli. Lasciai oscillare la chiave e la mollai all'improvviso; sotto i miei occhi la sua mano schizzò e la prese al volo, silenzioso e veloce come un lampo. «Vacci piano», lo avvertii, «il pick-up è un pensionato».
«Molto ragionevole», disse con approvazione.
«E tu, non sei nemmeno scalfito dalla mia presenza?», chie­si maliziosa.
Ancora una volta la sua espressione si trasformò e i suoi tratti si fecero dolci, caldi. Anziché rispondere, avvicinò il viso al mio, inclinandolo leggermente, e prese a sfiorarmi lento con le labbra, dall'orecchio al mento, avanti e indietro. Tremavo.
«E in ogni caso», mormorò, «i miei riflessi sono più pronti dei tuoi».


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