sabato 31 ottobre 2009

"Bella, tu mi vuoi morto!"

Buon pomeriggio!
Consueto appuntamento del sabato con la nostra rubrica pioggia di parole;)
Ecco una scena di Twilight che, davvero, è un peccato non sia stata inclusa nel film...Edward che "mette mano alla memoria di Bella" non si può perdere XD
Rileggiamola insieme!
Enjoy;*


«Scusa, Bella, ma ora ci tocca procedere a piedi».
«Sai una cosa? Ti aspetto qui».
«Dov'è finito il tuo coraggio? Stamattina sei stata straordi­naria».
«Non ho ancora dimenticato l'ultima volta». Possibile che fosse passato soltanto un giorno?
In un lampo, eccolo al mio fianco. Iniziò a slacciarmi l'im­bracatura.
«Ci penso io, tu vai avanti», protestai.
«Mmm...». In un secondo aveva già terminato. «A quanto pare mi toccherà metter mano alla tua memoria».
Prima che potessi reagire, mi sollevò dal sedile e mi costrin­se a scendere. Era rimasto solo un filo di nebbia: le previsioni di Alice si stavano avverando.
«Mettere mano alla mia memoria?», chiesi nervosamente.
«Qualcosa del genere». Mi guardava intensamente, con at­tenzione, ma nel profondo dei suoi occhi c'era dell'ironia. A quel punto ero costretta tra la portiera della jeep, alle mie spal­le, ed Edward di fronte a me, che mi chiudeva ogni via d'usci­ta appoggiandosi al finestrino con entrambe le mani. Si fece ancora più vicino, il suo viso era a pochi centimetri dal mio. Sentivo il suo respiro addosso, e bastava semplicemente il suo odore a mettere in crisi la mia razionalità. «Dimmi di cos'hai paura», alitò.
«Be', ecco, di sbattere contro un albero... e di morire. E poi, di avere la nausea».
Soffocò una risata. Poi piegò la testa e avvicinò delicatamen­te le labbra fredde all'incavo del mio collo.
«Adesso hai ancora paura?», sussurrò, sfiorandomi la pelle.
«Si». Faticavo a mantenere la concentrazione. «Di sbattere contro gli alberi e di avere la nausea».
Con la punta del naso disegnò una linea, dal collo al mento. Il suo respiro freddo mi faceva il solletico.
«E adesso?», sussurrò, con le labbra vicinissime alle mie.
Mi mancava il fiato. «Alberi... Nausea da movimento».
Si avvicinò a baciarmi sulle palpebre. «Bella, non dirmi che credi davvero che potrei sbattere contro un albero».
«Tu no, ma io sì». Non c'era un filo di convinzione nella mia voce. Edward pregustava una vittoria certa.
Mi baciò dolcemente la guancia, a un centimetro dalle labbra.
«Pensi che permetterei a un albero di farti del male?». La sua bocca sfiorò leggerissima la mia.
«No», dissi senza voce. Ero soltanto a metà della mia bril­lante arringa, ma già avevo dimenticato come proseguiva.
«Vedi», disse, senza allontanare le labbra di un millimetro. «Non c'è niente di cui avere paura, no?».
«No», sospirai, rassegnata.
Poi, con foga, prese la mia testa fra le mani e mi diede un vero bacio, muovendo le sue labbra con decisione sopra le mie.
Non avevo scuse per comportarmi così. A quel punto avrei dovuto saperla lunga. Eppure, non riuscii a trattenermi dal rea­gire esattamente come la prima volta. Anziché restare tranquilla e immobile, mi allacciai stretta alle sue spalle e mi ritrovai avvin­ghiata al suo petto roccioso. Con un gemito dischiusi le labbra.
Lui si allontanò di scatto, liberandosi senza difficoltà dalla mia presa.
«Accidenti, Bella!», sbottò ansimante. «Tu mi vuoi morto, altroché!».
Mi piegai in avanti, appoggiandomi alle ginocchia per non perdere l'equilibrio.
«Tu sei indistruttibile», sussurrai, senza fiato.
«Lo credevo anch'io, prima di conoscerti. Adesso andiamo­cene da qui, prima che io combini qualche grossa stupidaggi­ne», ringhiò.
Mi prese in spalla con uno strattone, nonostante si stesse evidentemente sforzando di non essere troppo irruento. Strin­si le gambe attorno ai suoi fianchi e le braccia attorno alle spal­le, in una presa soffocante.
«Ricorda di non guardare», disse severo.
Allora intrufolai il viso tra il braccio e la sua scapola, serran­do gli occhi.
Pareva che fossimo rimasti immobili. Sentivo Edward scivo­lare via dolcemente, come se passeggiasse su un marciapiede. Avevo la tentazione di sbirciare per controllare che stesse dav­vero volando in mezzo alla foresta, ma riuscii a resistere. Non valeva la pena rischiare quelle tremende vertigini. Mi accon­tentai di ascoltare il suo respiro regolare.
Capii che ci eravamo fermati soltanto quando sentii un suo buffetto sui capelli.
«Ci siamo, Bella».
Osai aprire gli occhi e, in effetti, eravamo arrivati. Allentai la presa con cautela e mi lasciai scivolare giù, atterrando di sedere.
«Ohi!», esclamai, rovinando gambe all'aria sulla terra umida.
Mi fissò incredulo, evidentemente incerto se restare arrab­biato o prendermi in giro. Ma di fronte alla mia espressione sbalordita si lasciò andare a una risata fragorosa.
Mi alzai senza badargli, togliendomi di dosso il fango e le felci. E lui rise ancora più forte. Seccata, iniziai a camminare a grandi passi verso la foresta.
Sentii il suo abbraccio attorno ai fianchi.
«Dove vai, Bella?».
«A vedere una partita di baseball. Non mi sembra che tu abbia più tanta voglia di giocare, ma sono certa che gli altri si divertiranno anche senza di te».
«Stai andando dalla parte sbagliata».
Mi voltai senza degnarlo di uno sguardo e scattai nella dire­zione opposta. Mi riacchiappò.
«Non arrabbiarti, è stato più forte di me. Avresti dovuto ve­derti in faccia». Si lasciò scappare una risatina.
«Ah, l'unico a cui è permesso di arrabbiarsi sei tu?».
«Non ero arrabbiato con te».
«"Bella, tu mi vuoi morto"?!», lo citai acida.
«Quello è un semplice dato di fatto».
Cercai nuovamente di scappare, ma mi teneva stretta.
«Eri arrabbiato».
«Sì».
«Ma se hai appena detto...».
«Non ero arrabbiato con te. Non capisci, Bella?». Si era im­provvisamente rabbuiato, sul suo viso non c'era più traccia di divertimento. «Non capisci?».
«Che cosa?». Ero confusa dalle sue parole e dal suo cambia­mento di umore.
«Non sono mai arrabbiato con te. Come potrei esserlo? Sei sempre così coraggiosa, fiduciosa... calorosa».
«E allora, perché?», sussurrai, ricordando gli accessi di umor nero che talvolta lo allontanavano da me e che avevo sempre interpretato come frustrazione, giustificata da quanto fossi debole, lenta, imprevedibile nelle mie reazioni umane...
Mi accarezzò le guance con delicatezza. «Ciò che mi fa infu­riare», disse gentile, «è l'impossibilità di proteggerti dai rischi. La mia stessa esistenza è un rischio, per te. A volte mi odio dal profondo. Dovrei essere più forte, capace di...». Gli chiusi la bocca con le dita.
«No».
Prese la mano con cui l'avevo zittito e se la posò sulla guancia.
«Ti amo», disse. «È una giustificazione banale per quanto faccio, ma sincera».
Era la prima volta che lo sentivo dire che mi amava con così tante parole. Forse lui non se ne era reso conto, ma io sì.
«Adesso, per favore, cerca di comportarti bene», aggiunse, e si avvicinò per baciarmi con delicatezza.
Restai immobile, come dovevo. Poi feci un sospiro.
«Hai promesso all'ispettore Swan che mi avresti portata a casa presto, ricordi? È meglio che ci muoviamo».
«Sissignora».

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