martedì 8 settembre 2009

quanto ti piace? troppo!

buona sera a tutti!!
anche senza news di rilievo abbiamo cercato di allietarvi questo pomeriggio!
dopo il sondaggio di ieri , continuiamo con le nostre rubriche , dando la parola direttamente alla zia Steph!

rileggiamo insieme i brani più belli della saga che ci ha conquistato il cuore!

senza troppi giri di parole vi lascio direttamente al brano che abbiamo scelto per voi per il ritorno della nostra rubrica "pioggia di parole"!...
quindi...buona lettura e morsetti a tutti!
kiara e giusy!
«Sono curiosa...», dissi, prendendo una mela e rigirando­mela tra le dita. «Come reagiresti se qualcuno ti sfidasse a mangiare del cibo?».
«Curiosa come al solito». Fece una smorfia e scosse il capo. Mi guardò di sottecchi, mentre prendeva un trancio di pizza dal vassoio e lo mordeva soddisfatto, masticandolo e ingoian­dolo in un baleno. Io lo guardavo, incredula.
«Se qualcuno ti sfidasse a mangiare spazzatura potresti far­lo, no?», chiese, con un filo di arroganza.
Mi si arricciò il naso dal ribrezzo. «Una volta è successo... una scommessa. Non era così male».
Rise. «La cosa non mi sorprende più di tanto». Fu distratto da qualcosa alle mie spalle.
«Jessica sta analizzando tutti i miei movimenti... più tardi ti farà un resoconto dettagliato». Mi offrì il resto della sua pizza. Il pensiero di Jessica riportò a galla un pizzico dell'irritazione che avevo letto sul suo viso.
Posai la mela e addentai il trancio di pizza, guardando altro­ve. Sapevo che stava per parlare.
«Perciò, la cameriera era carina?», chiese, ingenuamente.
«Non te ne sei accorto?».
«No, non ci ho fatto caso. Avevo altro per la testa».
«Poveretta». A quel punto potevo concedermi di essere ma­gnanima.
«Una delle cose che hai detto a Jessica... be', mi infastidisce un po'». Rifiutava di cambiare discorso. Sembrava quasi sgar­bato, da sotto le ciglia mi rivolse uno sguardo inquieto.
«Non mi sorprende che tu abbia sentito qualcosa di spiace­vole. Sai quel che si dice di chi origlia...».
«Ti ho avvertita che sarei rimasto in ascolto».
«E io ti ho avvertito che non avresti gradito conoscere tutti i miei pensieri».
«In effetti, mi avevi avvertito», la sua voce non si era addol­cita. «Però, non credo tu abbia ragione fino in fondo. Voglio sapere sì ciò che pensi, e tutto. Soltanto, mi piacerebbe... che non pensassi certe cose».
Lo guardai, imbronciata. «Bella differenza».
«Ma non è questo il problema, al momento».
«E quale sarebbe?». Ci stavamo entrambi sporgendo sul ta­volo, l'uno di fronte all'altra. Lui teneva le grandi mani bian­che sotto il mento; io mi coprivo il collo con la destra. Mi sfor­zai di ricordare che eravamo in una sala mensa affollata, pro­babilmente piena di occhi curiosi. Era troppo facile cedere alla tentazione di lasciarci avvolgere dalla nostra piccola e lucida bolla privata.
«Sei davvero convinta di piacermi meno di quanto io piac­cia a te?», mormorò facendosi più vicino e inchiodandomi con i suoi occhi intensi e dorati.
La mia mente si svuotò, non ricordavo neppure come si re­spira. Mi tornò il fiato soltanto dopo aver posato lo sguardo al­trove.
«Lo stai rifacendo», dissi fra i denti.
Sgranò gli occhi, sorpreso. «Cosa?».
«Stai cercando di incantarmi», ammisi, tornando ad ammi­rarlo. Dovevo restare lucida.
«Ah», rispose, accigliato.
«Non è colpa tua», sospirai. «Non ci puoi fare niente».
«Mi vuoi rispondere?».
Abbassai lo sguardo. «Sì».
«Sì mi vuoi rispondere, o sì ne sei davvero convinta?». Riecco l'irritazione.
«Sì ne sono convinta». Tenevo il capo chino verso il tavolo, gli occhi fissi sulle false venature di legno stampate sul lamina­to. Il silenzio iniziava a pesare. Mi rifiutavo di essere io la pri­ma a romperlo e resistevo con tutte le forze alla tentazione di sbirciare per cogliere l'espressione sul suo volto.
Infine fu lui a parlare, a bassa voce: «Ti sbagli».
Non sembrava affatto infuriato, anzi, era gentile.
«Non puoi esserne sicuro», sussurrai. Scossi il capo, ero pie­na di dubbi, il mio cuore batteva a singhiozzo, e non sapevo cos'avrei dato per credere alle sue parole.
«Cosa te lo fa pensare?». Mi squadrò con il suo sguardo li­quido, color topazio, probabilmente nel vano tentativo di pre­levare la verità direttamente dalla mia testa.
Lo fissai a mia volta, sforzandomi di restare lucida malgrado quel viso, ansiosa di spiegarmi con le parole giuste. Lo vedevo sempre più impaziente, cominciava a diventare scuro in volto per il mio silenzio. Alzai il dito della mano destra.
«Ci devo riflettere», insistetti. Soddisfatto dalla risposta pro­messa, si rilassò. Posai la mano sul tavolo, la congiunsi all'altra. Intrecciavo e scioglievo le dita, ma infine parlai.
«Be', ovvietà a parte, a volte... non mi sento sicura - non sono capace di leggere nel pensiero, io - e ogni tanto ho la sen­sazione che mentre mi dici certe cose in realtà tu stia cercando di lasciarmi perdere». Era il riassunto migliore dell'inquietudi­ne che talvolta le sue parole mi scatenavano dentro.
«Perspicace», sussurrò. Riecco l'angoscia, a confermare i miei timori. «Purtroppo, è proprio qui che ti sbagli», cercò di spiegarsi, ma all'improvviso strizzò le palpebre. «Cosa intendi per "ovvietà"?».
«Be', guardami», dissi, ed era superfluo, perché già mi stava guardando. «Sono una ragazza assolutamente normale... Cer­to, a parte difetti come gli incidenti quasi mortali e una goffaggine degna di una disabile. E guarda te». Indicai lui e la sua stupefacente perfezione.
Alzò un sopracciglio, irritato, ma si rilassò all'istante e nei suoi occhi apparve uno sguardo intelligente. «Credo che tu non abbia una buona percezione di te stessa. Devo ammettere che quanto ai difetti ci hai azzeccato», rise sarcastico, «ma tu non hai sentito cos'hanno pensato tutti gli studenti maschi di questa scuola quando ti hanno vista la prima volta».
Sgranai gli occhi, stupita. «Non ci credo...», dissi, tra me e me.
«Per una volta fidati, se ti dico che sei l'esatto contrario del­la normalità».
Fui molto più imbarazzata che lusingata dall'occhiata con cui accompagnò le sue parole. Cercai di riprendere il filo origi­nale del discorso.
«Ma io non sono intenzionata a lasciarti perdere», rimarcai.
«Non capisci? È la dimostrazione che ho ragione io. Ci ten­go più di te, perché se ci riuscissi», e scosse il capo, come per accettare l'idea controvoglia, «se andarmene fosse la scelta mi­gliore, sarei disposto a danneggiare me stesso, pur di non ferir­ti, pur di proteggerti».
Lo guardai, torva: «E non credi che sia lo stesso per me?».
«Non è a te che spetta questa scelta».
All'improvviso, il suo umore imprevedibile cambiò per l'en­nesima volta: sfoderò un sorriso beffardo, devastante. «Certo, darti protezione sta diventando un lavoro a tempo pieno che richiede la mia presenza costante».
«Oggi nessuno ha cercato di farmi fuori». Gli ero grata per avere cambiato argomento. Non volevo più parlare di abban­dono. Pur di averlo accanto, sarei stata disposta a mettermi spontaneamente in pericolo... Ma cancellai quel pensiero pri­ma che potesse leggermelo negli occhi. Sarebbe stato un bel guaio.
«Non ancora», aggiunse.
«Non ancora». Avrei anche voluto controbattere, ma a quel punto desideravo che si aspettasse un'altra catastrofe.
«Ho un'altra domanda». Mostrava un certo contegno.
«Spara».
«Hai davvero bisogno di andare a Seattle, questo sabato, o era soltanto una scusa per evitare di dire no a tutti i tuoi ammi­ratori?».
Il ricordo mi fece storcere la bocca. «Guarda, non ti ho an­cora perdonato per la faccenda di Tyler. È colpa tua se conti­nua a illudersi di potermi invitare al ballo di fine anno».
«Oh, avrebbe trovato l'occasione per chiedertelo anche se non ci fossi stato io: morivo soltanto dalla voglia di vedere la tua reazione», disse, sghignazzando. Mi sarei arrabbiata, se ve­derlo ridere non fosse stato così affascinante. «Se te l'avessi chiesto io, avresti scaricato anche me?», domandò, senza smet­tere di ridere.
«Probabilmente no», confessai. «Ma all'ultimo momento avrei cancellato l'invito... avrei finto una malattia o una cavi­glia slogata».
«E perché mai?».
Scossi il capo mesta. «Immagino che tu non mi abbia mai vi­sta in palestra, ma pensavo che avresti capito».
«Ti riferisci al fatto che non sei in grado di camminare su una superficie piana e solida senza inciampare?».
«Ovviamente».
«Non sarebbe un problema». Sembrava molto sicuro di sé. «Dipende tutto da chi guida». Sapeva che stavo per ribattere e non me ne lasciò il tempo. «Non mi hai ancora risposto: vuoi davvero andare a Seattle, o ti andrebbe se facessimo qualco­s'altro?».
Finché il soggetto della frase era "noi", avrei accettato qual­siasi alternativa.
«Sono aperta a tutte le proposte, ma devo chiederti un solo favore».
Sembrava allarmato, come sempre di fronte alle mie richie­ste vaghe. «Cosa?».
«Posso guidare io?».
Aggrottò le sopracciglia. «Perché?».
«Be', prima di tutto perché quando ho detto a Charlie che sarei andata a Seattle, lui mi ha chiesto se fossi da sola, e visto che così era l'ho rassicurato. Se me lo chiedesse di nuovo non potrei mentirgli, ma non credo che lo farà: lasciare il pick-up a casa, però, lo porterebbe a sollevare la questione. In secondo luogo, la tua guida mi terrorizza».
Alzò gli occhi al cielo. «Con tutto ciò che in me potrebbe terrorizzarti, ti preoccupi di come guido». Scosse il capo, di­sgustato, e poi tornò serio. «Non vuoi dire a tuo padre che pas­serai la giornata con me?». La sua domanda sottintendeva qualcosa che non riuscivo a capire.
«Con Charlie, meno si dice, meglio è». Non intendevo di­scuterne. «E comunque, dove andremmo?».
«Ci sarà bel tempo, perciò dovrò restare lontano da sguardi indiscreti... e se ti va, puoi venire con me». Ancora una volta, la scelta era mia.
«Mi mostrerai quel che dicevi a proposito della luce solare?», chiesi, eccitata all'idea di scoprire un altro dei suoi misteri.
«Sì». Sorrise, e tacque. «Ma anche se non vuoi restare... sola con me, preferirei che tu non te ne andassi a Seattle per conto tuo. Tremo al solo pensiero dei guai in cui potresti cac­ciarti in una città così grande».
Mi stizzii. «Phoenix è tre volte Seattle, e solo quanto a po­polazione. Le dimensioni...».
«Ma a quanto pare», mi interruppe, «a Phoenix non era an­cora giunta la tua ora. Perciò preferirei che mi stessi accanto». Mi scoccò un'altra delle sue occhiate fiammeggianti.
Non ero in grado di ribattere né a quella né alle sue ragioni, e non ne avevo comunque motivo. «Si dà il caso che restare sola con te non mi dispiaccia affatto».
«Lo so», sospirò, rassegnato. «Però dovresti dirlo a Charlie».
«E perché mai dovrei?».
Il suo sguardo si fece severo. «Così avrò un briciolo di moti­vazione in più per riportarti a casa».
Ero imbarazzata. Ma dopo qualche istante di riflessione ero decisa: «Penso che correrò il rischio».

1 commento:

  1. Avete avuto un'ottima idea!!!!! Io non leggo Twilight da più di un anno... ke bei ricordi!!!!! La prima volta ke ho letto questa parte del libro.. ero emozionatissima!!!!!!!! XD Cmq brave... avete resistito alla tentazione di continuare il racconto!!!!Perchè diciamocelo... vien voglia di continuare il libro!!!!!!!!!!!

    RispondiElimina