martedì 29 settembre 2009

Fanfiction-"Until The Time Is Through"-cap1

Buonasera twilghters!!

Oggi come promesso appuntamento fanfiction!

Iniziamo oggi col il primo capitolo della fanfiction "Until The Time Is Through" scritta da Gisa, e nei martedì a venire pubblicheremo i successivi.

Pronti ad un viaggio nel tempo? Il racconto ci porta ai primi del novecento...

Fateci sapere che ne pensate nei commenti;)
Enjoy!


Capitolo I

Tenevo ancora la lettera dell’esercito in mano, cercando di riordinare le idee. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato anche il mio momento, così come per mio padre. Ma non mi aspettavo fosse così presto.
La guerra esercitava una certa attrattiva su di me, ma non potevo nascondere il mio terrore verso quelle poche parole scritte in piccola battitura.
“Edward, fammi vedere cos’è quella lettera”, mi disse mia madre con voce autoritaria. Si sporse versi di me, strappandomi la lettera dalle mani.
La guardai leggere attentamente, guardai come le pupille degli occhi si facevano sempre più vuote, come si riempivano di terrore. Una copia amplificata del mio.
“Non andrai”, disse d’un tratto.
“Madre, non andare sarebbe come tradire il mio paese, lo sai. Non posso non andare.” replicai io con voce monotona.
“Ora vedremo. Intanto, una cosa è assolutamente certa: domani tu verrai con me alla cena degli Hart. Non accetterò questa lettera…” disse, portando in alto la mano che stringeva la lettera dell’esercito, “…come scusa. Ti presenterò alla loro primogenita, e tu sarai un gentiluomo”.
Si congedò così, lasciandomi inebetito in sala da pranzo. La guardai risalire le scale con la testa bassa, simile ad un cagnolino triste ed indifeso.
Ondeggiava leggermente per quel goccio di vino di troppo che aveva bevuto per digerire meglio la mia imminente partenza con la tuta mimetica.
Per lei, bere era un modo per dimenticare, come per molte altre persone. All’interno del quartiere dove abitavamo questo non le faceva onore, ma nessuno si sarebbe mai sognato di darle della vigliacca. Aveva dovuto sopportare l’abbandono del marito, per lo stesso motivo per cui, probabilmente, avrebbe dovuto sopportare il mio.
Quindi, per tutti, era una donna forte, nonostante la sua statura. Poco più alta del metro e trenta, la prima cosa che si notava di lei era l’infinità di ricci, vaporosi riccioli rossi, che le facevano guadagnare qualche centimetro in altezza.
Con enorme generosità, mi aveva donato due splendidi occhi verde smeraldo, di cui si vantava sempre.
Ma il difetto più evidente- che per lei era una qualità- era la testardaggine. Proprio per questo mi ero lasciato presentare a tutte le ragazze di Chicago, per questo sarei andato alla cena la sera successiva, facendo buon viso a cattivo gioco. L’avrei accontentata, certo. Probabilmente era l’ultima cosa che avrei potuto fare per farla contenta, e non avrei esitato.

Il pomeriggio seguente, la mia stanza era un manicomio. Mia madre mi aveva fatto cambiare tante di quelle volte che tutti i miei vestiti erano ammassati in modo indistinto sul letto, e ancora non eravamo soddisfatti del mio aspetto. A detta sua, dovevo essere perfetto. Non avrebbe sopportato che un dettaglio futile come l’abbigliamento avesse decretato una sconfitta quel giorno. E una vittoria vedeva me con un abito e un anello al dito.
“Aspetta di vederla, prima di parlare, Edward”, continuava a ripetere mia madre, come una cantilena. Con quelle guance rosse nello sforzo di infilarsi un vestito pregiato di quando era più giovane, sembrava un giullare.
Mi avvicinai per aiutarla a chiudere la cerniera, sul punto di esplodere.
“Madre, se la ragazza è come la ricordo, è meglio che vada subito a preparare la valigia e la tuta mimetica: si va in guerra!” la canzonai. Mi guardò in faccia, lanciandomi un’occhiataccia che avrebbe fatto ridere anche una statua. Le sorrisi, e lei si voltò di scatto imbronciata.
Quando si rese finalmente conto che era fisicamente impossibile entrare nel vestito di almeno mezzo secolo prima, si mise a frugare nell’armadio.
Optò per una semplice gonna beige e una camicetta bianca.
Mi risparmiai la tragedia scarpe, e uscii all’aperto per prendere un po’ d’aria.
“Sarà sicuramente viziata e schizzinosa, per non parlare della sua profondità pari ad una pozzanghera”, mi dissi, cercando di essere convincente. Era difficile essere realisti e dire che probabilmente questa donna, il qualsiasi modo fosse stata, sarebbe diventata mia moglie. Appena realizzai che stavo per diventare il marito di qualcuno, mi venne mal di testa.
Avevo appena diciassette anni, santo cielo!
Appoggiai la testa allo stipite della porta, in attesa. Chiusi gli occhi, mi fu facile far finta di essere contento di quella cena. Peccato che non ero un granché come attore, e convincere gli altri invitati che ero entusiasta di essere lì con loro non sarebbe stato facile.
Assorto nei miei confusi pensieri, non sentì mia madre venirmi vicino finchè non mi scosse con forza, prima di passare avanti a me, verso la nostra malandata e vecchia carrozza. Avrei guidato io, mentre la mia dolce madre sarebbe stata nell’abitacolo, come una vera signora d’altri tempi.
Ad ogni metro che facevamo per avvicinarci alla casa degli Hart, il mio cuore perdeva un battito. Solo così mi resi conto di essere arrivato a destinazione. Perché, per un secondo, il muscolo che mi ritrovavo al centro del petto smise di battere.
E non solo perché non ero mai stato così agitato, ma perché avevo appena visto la casa che apparteneva ai miei probabili futuri suoceri: l’edificio più mieloso che avessi mai visto. Ogni sommità e muratura era ornata con miriadi di merletti di legno verniciati di bianco. Feci una smorfia.
Feci scender mia madre, che rimase sorpresa quanto me dalla facciata di quella casa.
Entrati in casa, notai subito la grande tavola imbandita per la festa. Un’infinità di gente le girava attorno, ammirando tutte le pietanze varie esibite in grande stile sulla tovaglia.
Appena vidi i proprietari di casa venirci incontro, raggelai. Ovviamente, tra loro c’era la mia futura sposa.
“Io quella non la sposo” sussurrai appena muovendo le labbra a mia madre, che sia era attaccata a me. Riuscì a malapena a trattenere un sorriso, guadando la sua espressione terrorizzata.
“Shh! Sii gentile e sorridi”, mi rispose lei, con il sorriso forzato più evidente del mondo.

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