mercoledì 29 luglio 2009

2 CHIACCHIERE IN AUTO

Buonaseraaa twilighters!
Si avvicina sabato!!! Tutti pronti per il raduno??? Noi tutte non vediamo l'ora!
Se avete domande da fare e informazioni da chiedere mandateci una mail;)

Ma passiamo ora alla rubrica solita del martedì...pioggia di parole.
L'altra volta siamo rimasti in sospeso, con Edward e Bella che stavano per salire in macchina a Port Angeles. Tornando a casa tutta la verità su Edward e la sua natura verrà fuori...ma a Bella non importa.
In effetti Edward potrebbe essere il peggiore dei mostri...Bella (e anche noi) lo ameremmo lo stesso! eheheh XD
Enjoy!
Giusy;*

«Come funziona la faccenda della lettura del pensiero? Riesci a leggere la mente di chiunque, ovunque? Come fai? Anche i tuoi fratelli...?». Mi sentivo una stupida a chiedere delucida­zioni su una cosa così irreale, assurda.
«No, è una dote soltanto mia. E non riesco a sentire tutti, ovunque. Devo essere piuttosto vicino alle persone che leggo. Ma più familiare è una "voce", maggiore è la distanza a cui la avverto. Mai più di qualche chilometro, comunque». Per un istante tacque, pensoso. «È un po' come essere in una grande sala piena di persone che parlano contemporaneamente. Una specie di rumore di fondo, il ronzio confuso delle voci. Finché non mi concentro su una voce sola e la metto a fuoco: allora sento cosa sta pensando. Il più delle volte semplicemente igno­ro, escludo tutto: rischia di distrarmi troppo. Così poi è più fa­cile sembrare normale», a quella parola, aggrottò le ciglia, «ed evitare di rispondere per sbaglio ai pensieri delle persone, an­ziché alle loro parole».
«Secondo te, perché non riesci a sentirmi?».
Mi fissò con uno sguardo enigmatico.
«Non lo so. Il mio sospetto è che la tua mente funzioni in modo diverso da tutte le altre. Come se i tuoi pensieri trasmet­tessero in AM e io ricevessi solo in FM». Mi sorrise, improvvisa­mente divertito.
«La mia mente non funziona come dovrebbe? Sono una specie di mostro?». Mi preoccupai di quell'ipotesi più del do­vuto... probabilmente perché le sue supposizioni avevano fat­to centro. Avevo sempre sospettato qualcosa del genere in me, e mi sentii imbarazzata di fronte a tale conferma.
«Io sento voci nella mia testa, e tu temi di essere il mostro?», rise. «Stai tranquilla, è solo una teoria...». Si fece serio: «Il che ci riporta a te».
Sospirai. Da dove potevo iniziare?
«Abbiamo abolito le risposte evasive, no?».
[…]
«Sto ancora aspettando la tua ultima teoria».
Mi morsi un labbro. Non mi aspettavo tanta gentilezza nei suoi occhi di miele.
«Non riderò, lo prometto».
«In realtà temo piuttosto che ti arrabbierai con me».
«È una teoria così brutta?».
«Abbastanza, sì».
Restò in attesa. Mi guardavo le mani, perciò non vedevo la sua espressione.
«Prosegui». Sembrava calmo.
«Non so da dove cominciare».
«Perché non cominci dall'inizio... Hai detto che questa teo­ria non è tutta farina del tuo sacco».
«No».
«A cosa ti sei ispirata? Un libro? Un film?».
«No... è stato sabato, alla spiaggia». Arrischiai un'occhiata al suo viso. Sembrava interdetto. «Ho incontrato per caso un vecchio amico di famiglia, Jacob Black. Suo padre e Charlie si frequentano da quando ero bambina».
Continuava ad apparire confuso.
«Suo padre è un anziano dei Quileutes». Lo osservai con at­tenzione. Non batteva ciglio. «Abbiamo fatto una passeggia­ta...», sorvolai sul mio comportamento malizioso, «e lui mi ha raccontato vecchie leggende locali, probabilmente per spaven­tarmi. Me ne ha raccontata una...», mi fermai, esitando.
«Continua».
«...che parla di vampiri», bisbigliai. A quel punto, non riu­scivo a guardarlo in faccia. Ma notai le sue nocche stringersi sul volante.
«E hai pensato immediatamente a me?». Manteneva la calma.
«No. Lui... ha citato la tua famiglia».
Restò zitto, con gli occhi fissi sulla strada.
All'improvviso sentii che dovevo proteggere Jacob.
«Secondo lui era solo una sciocca superstizione», aggiunsi svelta. «Non pensava che ci avrei ricamato sopra». Ma non mi sembrò abbastanza, dovevo confessare: «È stata colpa mia, l'ho costretto a raccontarmela».
[…]
«Ho fatto la smorfiosa con lui, e ha funzionato meglio di quanto io stessa pensassi». Rievocando la scena, io per prima ero incredula.
«Mi sarebbe piaciuto assistere». Rise a mezza voce. «E poi mi accusi di fare colpo sulle persone... povero Jacob Black».
Arrossii e guardai il panorama notturno fuori dal finestrino.
«E allora cos'hai fatto?», chiese lui, subito dopo.
«Una
breve ricerca su Internet».
«E hai trovato conferma ai tuoi dubbi?». Sembrava molto poco interessato. Ma non allentava la presa ferrea sul volante.
«No, non mi quadrava niente. Più che altro si trattava di stupidaggini. E poi...».
«Poi cosa?».
«Ho deciso che non m'importa», sussurrai.
«Non ti importa?». Il suo tono mi convinse ad alzare gli oc­chi: avevo finalmente fatto breccia al di là della maschera co­struita con tanta cura. Era incredulo, la rabbia che temevo lo sfiorava appena.
«No», dissi sottovoce. «Non m'importa cosa sei».
Mi parlò con un filo di cattiveria, come per prendermi in giro: «Non t'importa se sono un mostro? Se non sono umano?».
«No».
Tacque, lo sguardo fisso sul parabrezza. La sua espressione era vuota e fredda.
«Ti ho fatto arrabbiare», dissi. «Non avrei dovuto aprire bocca».
«No», rispose, ma la voce era dura come la sua espressione. «Preferisco sapere cosa pensi... anche se ciò che pensi è assurdo».
«Quindi mi sto sbagliando di nuovo?».
«Non intendevo questo. "Non m'importa!"», ripeté le mie parole digrignando i denti.
«È così allora?».
«T'interessa?».
Respirai a fondo.
«Non proprio», attesi un istante, prima di continuare: «Ma sono curiosa». Se non altro, non avevo perso il controllo della voce.
Tutto a un tratto, mi sembrò rassegnato. «Cosa vuoi sapere?».
«Quanti anni hai?».
«Diciassette», rispose istantaneamente.
«E da quanto tempo hai diciassette anni?».
Guardava la strada, con le labbra contratte. Alla fine, si ras­segnò a rispondere: «Da un po'».
«D'accordo». Sorrisi, contenta che finalmente fosse sincero. Mi scrutò come quando era preoccupato che mi venisse un at­tacco di panico. Continuai a sorridere per rassicurarlo, e lui si fece scuro in volto.
«Non ridere se te lo chiedo, ma... come fai a uscire di casa quando è giorno?».
Rise. «Leggenda».
«Non ti sciogli al sole?».
«Leggenda».
«Dormi dentro una bara?».
«Leggenda». Per un momento esitò, poi proseguì con un tono di voce strano: «Io non dormo».
Mi ci volle un minuto per digerire quella risposta. «Mai?».
«Mai», confermò, con un filo di voce. Si voltò verso di me, mesto. I suoi occhi dorati catturarono i miei, facendomi smar­rire il filo del discorso. Sostenni il suo sguardo finché non lo volse altrove.
«Non mi hai ancora fatto la domanda più importante». Era tornato freddo e sulla difensiva.
Ero ancora imbambolata. Cercai di riprendermi. «Quale sa­rebbe?».
«Non sei preoccupata della mia dieta?», chiese, sarcastico.
«Ah... quella».
«Sì, quella. Non sei curiosa di sapere se mi nutro di sangue?».
Mi ritrassi appena. «Be', Jacob mi ha detto qualcosa».
«Cosa ti ha detto?», chiese, senza tradire nessuna emozione.
«Ha detto che voi non... andate a caccia di umani. Ha det­to che la tua famiglia non è considerata pericolosa, perché vi cibate solo di animali».
[…]
«Dimmi perché vai a caccia di animali, anziché di esseri umani», suggerii, ancora con lo sconforto nella voce. Avevo gli occhi lucidi, e mi sforzavo di combattere il senso di pena che voleva prendere il sopravvento.
«Non voglio essere un mostro». Parlò a voce bassissima.
«Ma gli animali non ti bastano?».
Fece una pausa. «Non ho verificato, ovviamente, ma immagino che sia come una dieta a base solo di tofu e latte di soia. Per scherzare, ci definiamo "vegetariani". Gli animali non pla­cano del tutto la fame, o meglio, la sete. Ma riusciamo a man­tenerci in forze. Il più delle volte». La sua voce tornò minac­ciosa: «Talvolta è davvero difficile».
«Anche in questo momento?».
Sospirò. «Sì».
«Però adesso non hai fame», dissi, ed era una constatazione, non una domanda.
«Cosa te lo fa pensare?».
«I tuoi occhi. Ho una teoria, te l'ho detto. Ho notato che le persone - soprattutto gli uomini - diventano indisponenti, quando hanno fame».
Si lasciò scappare una risata leggera. «Sei una brava osserva­trice, eh?».
Non risposi: restai semplicemente in ascolto della sua risata, per conservarne il ricordo.
«Lo scorso weekend sei andato a caccia con Emmett?», chiesi, quando tornò il silenzio.
«Sì». Per un secondo esitò, indeciso se proseguire. «Non avrei voluto andare via, ma ne avevo bisogno. È più facile star­ti vicino quando non ho sete».
«Perché non volevi andarci?».
«Starti lontano... mi rende... ansioso». Il suo sguardo era dolce ma intenso, e mi sciolse. «Non scherzavo, quando ti ho chiesto di badare a non cadere nell'oceano o a non farti inve­stire, giovedì. Per tutto il fine settimana sono rimasto in pen­siero. E dopo stasera, mi sorprende che tu sia sopravvissuta al weekend senza farti un graffio». Scosse il capo e poi parve ri­cordarsi di qualcosa: «Be', non proprio».
«Cosa?».
«Le tue mani». Notai i graffi quasi invisibili sui miei polsi. Non perdeva un particolare.
«Sono caduta», sospirai.
«Lo immaginavo». Le labbra si incurvarono in un sorriso. «È anche vero che, per i tuoi standard, avrebbe potuto andare peggio, ed è proprio questo che mi ha tormentato, mentre ero lontano da te. Sono stati tre giorni molto lunghi. Ho rischiato di far saltare i nervi a Emmett». Mi rivolse un sorriso dolente.
«Tre giorni? Non siete tornati oggi?».
«No, siamo a casa da domenica».
«Ma allora perché nessuno di voi è venuto a scuola?». Ero frustrata, quasi infuriata, al pensiero della sofferenza che mi aveva causato non vederlo.
«Be' mi hai chiesto se il sole mi fa male e ti ho risposto di no. Però non posso espormi alla sua luce... perlomeno, non in pubblico».
«Perché?».
«Un giorno ti farò vedere, te lo prometto».
Ci pensai un istante.
«Potevi chiamarmi».
Lui restò di stucco. «Ma sapevo che eri sana e salva».
«Io invece non sapevo dove fossi tu. Io...», non riuscii a continuare e chinai lo sguardo.
«Cosa?». La sua voce era vellutata. Impossibile non arren­dermi.
«Non mi ha fatto piacere non vederti. Anche a me viene l'ansia». Pronunciare quella frase ad alta voce mi fece arrossire.
Lui tacque. Alzai lo sguardo, impaziente, e vidi sul suo vol­to un'espressione addolorata.
«Ah», esclamò tra sé. «Così non va».
Non capii quella risposta. «Cos'ho detto?».
«Non capisci, Bella? Che io renda infelice me stesso è una cosa, ma che tu sia coinvolta è un altro paio di maniche». Ri­volse lo sguardo preoccupato verso la strada, parlava troppo velocemente, quasi non lo capivo. «Non voglio più sentirti dire che provi cose del genere», disse, con un tono basso ma deci­so. Le sue parole mi trafissero. «È sbagliato. È rischioso. Bella, io sono pericoloso... ti prego, renditene conto».
«No». Era molto difficile cercare di non sembrare una bam­bina testarda.
«Dico sul serio», ringhiò lui.
«Anch'io. Te l'ho detto, non m'importa cosa sei. È troppo tardi».
La sua voce schioccò come una frustata, sorda e secca. «Non dirlo mai».
Serrai le labbra, lieta che non si rendesse conto del mio tor­mento. Guardai fuori dal finestrino. Superavamo di molto il li­mite di velocità. Ormai eravamo quasi arrivati.
«A cosa pensi?», chiese, ancora nervoso. Scossi il capo, non mi sembrava il caso di parlare. Sentivo il suo sguardo addosso, ma non battevo ciglio.
«Piangi?». Sembrava stupito. Non mi ero accorta che i luc­ciconi avessero debordato. Mi strofinai in fretta la guancia. E sì, eccome se c'erano.
«No». Cercai di parlare, ma non avevo voce.
Lo vidi accennare un movimento con la mano destra, sem­brava volesse toccarmi ma si bloccò, e lentamente tornò a stringere il volante.
«Scusa». La sua voce era densa di dispiacere. Sapevo che non si riferiva soltanto alle parole che mi avevano turbata.
L'oscurità e il silenzio ci avvolsero.
[…]
«Ci vediamo domani?», chiesi.
«Sì... Anch'io devo consegnare un saggio». Sorrise. «Ti ten­go il posto, a pranzo».
Era assurdo, dopo tutto quel che avevamo passato nelle ore precedenti, che quella piccola promessa mi facesse sentire le farfalle nello stomaco, e fui incapace di aprire bocca.
Eravamo giunti di fronte a casa di Charlie. Le luci erano ac­cese, il pick-up parcheggiato, tutto assolutamente normale. Fu come svegliarsi da un sogno. L'auto si fermò, ma non accennai a scendere.
«Prometti che domani ci sarai?».
«Lo prometto».
Ci pensai per qualche istante, poi annuii. Mi levai il suo giaccone, annusandolo un'ultima volta.
«Puoi tenerlo... o domani non avrai niente da mettere».
Glielo restituii. «Non mi va di dare spiegazioni a Charlie».
«D'accordo». Ammiccò.
Rimasi lì, la mano sulla portiera, desiderosa di prolungare quel momento.
«Bella?», domandò, con tutt'altra voce. Seria, ma con un tentennamento.
«Sì?». Mi voltai verso di lui fin troppo pronta.
«Mi prometti una cosa?».
«Sì». Subito, però, mi pentii della mia condiscendenza in­condizionata. E se mi avesse chiesto di restargli lontana? Non avrei potuto mantenere la parola.
«Non andare nel bosco da sola».
Lo fissai confusa, stupefatta. «Perché?».
Si fece scuro in viso e rivolse uno sguardo aguzzo dietro di me, oltre il finestrino.
«Diciamo che non sono sempre io, la cosa più pericolosa in circolazione».
L'improvvisa tetraggine della sua voce mi provocò un brivi­do, ma poco importava. Una promessa del genere almeno era facile da rispettare. «Come vuoi».
«Ci vediamo domani», disse, con un sospiro, e capii che vo­leva che ci salutassimo così.
«A domani, allora». Aprii la portiera controvoglia.
«Bella?». Mi girai di nuovo e lui era lì, proteso verso di me, il suo volto magnifico e pallido a pochi centimetri dal mio. Mi si fermò il cuore.
«Sogni d'oro». Il suo respiro mi soffiò sulle guance e mi stordì. Lo stesso profumo squisito che avevo sentito sul suo giubbotto, soltanto più denso. Si allontanò, e io rimasi impala­ta e sbalordita, con gli occhi sbarrati.
Restai impietrita finché non sciolsi il nodo che avevo nel cervello. Poi scesi dall'auto goffamente, tanto che dovetti reg­germi alla carrozzeria per non cadere. Mi sembrò di sentirlo ri­dere, ma il suono era troppo soffocato per esserne certa.

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