mercoledì 1 luglio 2009

FENOMENO

Ciaoo a tuttii!!!!
Ecco uno dei momenti più significativi di Twilight: Edward salva Bella.
E se non l'avesse fatto? Era destino che lei morisse in quell'incidente?
NON LEI...arriva quel momento e Edward è fregato! la sua vita è ormai inevitabilmente legata a quella di Bella...

Enjoy!
Giusy;*


Era un fischio acuto, una frenata, sempre più vicina e in­quietante. Alzai gli occhi, sbigottita.
Vidi parecchie cose contemporaneamente. Non era un film, perciò niente rallentatore. Anzi, la vampata di adrenalina acce­lerò l'attività del mio cervello e mi trovai a recepire con chia­rezza molti dettagli in un colpo solo.
Edward Cullen, a quattro auto di distanza da me, mi fissava terrorizzato. Il suo viso emergeva da un mare di altri volti, im­mobilizzati nella stessa maschera di terrore. Ma l'elemento più importante era il furgoncino blu scuro che sbandava, le ruote bloccate e stridenti, una trottola impazzita nel parcheggio ghiacciato. Stava per schiantarsi contro il retro del mio pick-up, di fronte al quale c'ero io. Non ebbi nemmeno il tempo di chiudere gli occhi.
Un istante prima che potessi sentire il fragore del furgonci­no che si accartocciava sul cassone del pick-up, qualcosa mi colpì, forte, ma il colpo non giunse da dove me lo aspettavo. Sbattei la testa contro il fondo stradale ghiacciato e sentii qual­cosa di duro e freddo che mi teneva giù. Ero sdraiata sull'asfal­to, dietro l'auto scura accanto alla quale avevo parcheggiato. Non potevo scorgere altro, perché la corsa del furgoncino non era ancora finita. Aveva strusciato girandosi contro la coda del mio mezzo con una derapata, continuando a slittare in testacoda, e stava per investirmi di nuovo.
Sentii mormorare un'imprecazione e mi accorsi che accanto a me c'era qualcuno, una voce inconfondibile. Due mani affu­solate e bianche mi si pararono di fronte per proteggermi, e il furgone si arrestò di colpo a una spanna dal mio volto. Le grandi mani erano affondate nella carrozzeria, dentro una provvidenziale, profonda ammaccatura del furgone.
Poi agirono così velocemente da diventare invisibili. Una fece presa in un istante sotto il furgoncino, e qualcosa mi tra­scinò, inerme come una bambola, girandomi per le gambe e fa­cendomele sbattere contro una ruota dell'auto scura. Fui as­sordata da un lancinante rumore metallico, e il furgoncino, con il vetro sbriciolato, si piantò sull'asfalto, esattamente nel punto in cui, fino a un secondo prima, si trovavano le mie gambe.
Per un interminabile istante il silenzio fu assoluto, poi ini­ziarono le urla. In quel pandemonio, sentivo gridare il mio nome dappertutto. Ma nitida in mezzo al frastuono, vicina al mio orecchio, udii la voce bassa e affannata di Edward Cullen.
«Bella? Tutto a posto?».
«Sto bene». La mia voce suonava strana. Cercai di sedermi, e mi accorsi che mi teneva stretta contro il suo fianco, con una presa ferrea.
«Attenta», mi avvertì, mentre cercavo di liberarmi. «Mi sa che hai preso una bella botta in testa».
In quel momento mi accorsi della dolorosa pulsazione sopra l'orecchio sinistro.
«Ahi», dissi, sorpresa.
«Come pensavo». Incredibilmente, sembrava che stesse trat­tenendo una risata.
«Come diavolo...». Mi ritrassi da lui, per tentare di schiarir­mi le idee e riprendere il contegno. «Come hai fatto ad arriva­re così in fretta?».
«Ero qui accanto a te, Bella», rispose lui, serio.
Cercai di sedermi, e mi lasciò fare, mollando la presa attor­no alla mia vita e allontanandomi quanto poteva, nello spazio angusto tra l'auto e il furgone. Osservai la sua espressione preoccupata, innocente, e per l'ennesima volta fui disorientata dall'intensità dei suoi occhi dorati. Cosa gli stavo chiedendo?
Infine ci trovarono, una folla di persone con le lacrime agli occhi, che urlavano verso di noi e si urlavano a vicenda.
«Non muovetevi», ci ingiunse qualcuno.
«Tirate fuori Tyler dal furgone!», gridò qualcun altro. Il movimento attorno a noi era frenetico. Cercai di alzarmi, ma la mano fredda di Edward mi tenne per una spalla e mi ricacciò giù.
«Per adesso resta qui».
«Ma fa freddo!», mi lagnai. Fui sorpresa nel sentirlo sogghi­gnare. Suonava sarcastico.
«Tu stavi laggiù», ricordai all'improvviso, e la sua risatina si interruppe. «Eri accanto alla tua macchina».
Il suo volto si indurì. «Invece no».
«Ti ho visto». Attorno a noi c'era il caos. Sentivo le voci più roche degli adulti giungere sul luogo dell'incidente. Eppure mi ostinai a non lasciar cadere il discorso: avevo ragione io, e l'a­vrei costretto ad ammetterlo.
«Bella, ero qui accanto a te e ti ho spinta via appena in tem­po». Scatenò tutta la potenza devastante del suo sguardo, come se volesse comunicarmi qualcosa di fondamentale.
«Invece no».
L'oro dei suoi occhi era fiammeggiante. «Per favore, Bella».
«Perché?».
«Fidati», mi pregò lui, sopraffacendomi con la sua voce dolce.
Ora si sentivano anche le sirene.
«Prometti che poi mi spiegherai tutto?».
«Promesso», concluse lui, esasperato.
«Promesso», ribadii, arrabbiata.
[…]
«Dorme?», chiese una voce melodiosa. Aprii immediata­mente gli occhi.
Ai piedi del mio letto c'era Edward, l'ombra di un sorriso sulle labbra. Lo fulminai. Non fu facile, il primo impulso era di fargli gli occhi dolci.
«Ehi, Edward, mi dispiace tanto...», attaccò Tyler.
Edward lo mise a tacere con un gesto.
«Niente sangue, niente danno», rispose, mostrando un sor­riso smagliante. Si mise a sedere sul bordo del letto di Tyler, voltato verso di me. Ancora quel sorriso furbesco.
«Allora, qual è il verdetto?», chiese.
«Non mi sono fatta neanche un graffio, ma non vogliono la­sciarmi tornare a casa», risposi io. «Com'è che tu non sei lega­to a una barella come noi?».
«Tutto merito di chi sai tu», rispose. «Ma non preoccuparti, sono venuto a liberarti».
Poi sbucò un dottore, e rimasi a bocca aperta. Era giovane, era biondo... ed era più bello di qualsiasi divo del cinema. Però era pallido, con l'aria stanca e le occhiaie marcate. A giu­dicare dalla descrizione di Charlie, doveva trattarsi del padre di Edward.
«E allora, signorina Swan», disse il dottor Cullen con un tono di voce decisamente attraente, «come stiamo?».
«Bene». Sperai di non doverlo ripetere più.
Accese il pannello luminoso sul muro sopra la mia testa.
«Le radiografie sono buone», disse. «Ti fa male la testa? Edward dice che hai preso un brutto colpo».
«Sto bene», ribadii con un sospiro, lanciando un'occhiatac­cia verso Edward.
Le dita fredde del dottore mi massaggiavano piano il cranio. Quando sobbalzai lui se ne accorse.
«Sensibile?», chiese.
«No, davvero». Sarebbe stato peggio.
Senti sogghignare, e alzai gli occhi verso il sorriso malizioso di Edward. Lo fulminai.
[…]
«Hai un minuto? Ho bisogno di parlarti». Lui fece un passo indietro, irrigidendo il volto.
«Tuo padre ti aspetta», disse tra i denti.
Io lanciai uno sguardo verso il dottor Cullen e Tyler.
«Vorrei parlare con te, da soli, se non è un problema», in­calzai.
Allargò le braccia, poi mi voltò le spalle e si diresse con lun­ghe falcate dall'altra parte dello stanzone. Quasi mi toccava correre per tenere il suo passo. Non appena girammo l'angolo che dava su un breve corridoio, si volse verso di me.
«Cosa vuoi?», chiese, con tono irritato. Lo sguardo era freddo.
Quell'aria ostile mi intimidiva. Parlai con molta meno deci­sione di quanto desiderassi. «Mi devi una spiegazione», gli ri­cordai.
«Ti ho salvato la vita. Non ti devo niente».
Arretrai davanti al risentimento che trapelava dalla sua voce. «L'hai promesso».
«Bella, hai battuto la testa, non sai quello che dici». Mi sta­va provocando.
A quel punto persi le staffe, e gli lanciai un'occhiata spaval­da. «La mia testa non ha un graffio».
Lui mi restituì l'occhiata. «Cosa vuoi da me, Bella?».
«Voglio la verità. Voglio sapere perché ti sto coprendo».
«Secondo te, cos'è successo?», sbottò lui.
Non riuscii a trattenermi.
«Quello che so è che eri tutt'altro che vicino a me. Neanche Tyler ti ha visto, perciò non dirmi che ho battuto la testa. Quel furgoncino stava per schiacciarci entrambi, invece non l'ha fat­to, e con le mani hai lasciato un'ammaccatura sulla fiancata si­nistra - e hai lasciato un bozzo anche sull'altra auto, senza far­ti niente - e il furgone stava per spaccarmi le gambe, ma l'hai alzato e trattenuto...». Mi resi conto di quanto suonasse assur­do, e non riuscii a continuare. Ero talmente infuriata che ero sul punto di piangere; serrai i denti per lo sforzo di trattenere le lacrime.
Lui mi fissava, incredulo e rigido. Stava sulla difensiva.
«Pensi che abbia sollevato un furgoncino per salvarti?». Il tono di voce voleva mettere in dubbio che fossi sana di mente, ma non fece altro che insospettirmi di più. Sembrava una bat­tuta recitata alla perfezione da un attore esperto.
Mi limitai ad annuire, a denti stretti.
«Non ci crederà nessuno, lo sai». Adesso pareva che volesse deridermi.
«Non lo dirò a nessuno». Controllai la rabbia e pronunciai ogni parola lentamente.
Sembrò ancora più sorpreso. «E allora, che importa?».
«Importa a me», insistetti. «Non mi piace mentire; perciò, se lo faccio, dev'esserci un buon motivo».
«Non puoi limitarti a ringraziarmi e lasciar perdere?».
«Grazie». Ma non mi davo per vinta: aspettavo, infuriata e impaziente.
«Immagino che tu non intenda lasciar perdere».
«No».
«In tal caso... spero che tu sopporti di buon grado la delu­sione».
Ci guardavamo in cagnesco, muti. Parlai per prima, sforzan­domi di mantenere la concentrazione. Correvo il rischio di la­sciarmi distrarre dal suo volto glorioso e livido. Era come ten­tare di vincere lo sguardo di un angelo vendicatore.
«Perché ti sei preso il disturbo di salvarmi?», chiesi, con grande freddezza.
Lui esitò, e per un istante su quel volto meraviglioso vidi un'inattesa vulnerabilità.
«Non lo so», disse, a mezza voce.
Poi mi voltò le spalle e se ne andò.

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