mercoledì 24 giugno 2009

2^ LEZIONE DI BIOLOGIA


SALVE A TUTTI!
OGGI LA NOSTRA RUBRICA DEL MARTEDì "PIOGGIA DI PAROLE" VI DARà L'OCCASIONE DI RILEGGERE UN ALTRO PEZZO TRATTO DA TWILIGHT DELLA NOSTRA ZIA STEPH. E' LA SECONDA LEZIONE DI BIOLOGIA DOVE FINALMENTE EDWARD SI PRESENTA A BELLA!
MORSETTI!
ELENA



«Ciao», disse una voce bassa, melodiosa.
Io alzai gli occhi, sbalordita dal fatto che si stesse rivolgendo proprio a me. Era seduto al banco il più lontano possibile, ma la seggiola era voltata nella mia direzione. I suoi capelli erano fradici, spettinati, ma anche conciato in quel modo sembrava appena uscito dalla pubblicità di un gel. Il suo viso splendente era amichevole, luminoso, con l'ombra di un sorriso sulle lab­bra perfette. Lo sguardo però esprimeva cautela.
«Mi chiamo Edward Cullen», continuò. «La settimana scor­sa non ho avuto occasione di presentarmi. Tu devi essere Bella Swan».
Mi girava la testa per la confusione. Mi ero inventata tutto? Ora era perfettamente educato. Dovevo parlargli: aspettava che lo facessi. Ma non riuscivo a pensare a niente di conven­zionale da dire

«Co... come fai a conoscere il mio nome?», balbettai.
Fece una risata leggera e ammaliante.
«Oh, penso che tutti sappiano come ti chiami. La città inte­ra ti stava aspettando».
Feci una smorfia. Sapevo che più o meno era la verità.
«No», insistetti, come una stupida, «intendevo, come mai mi hai chiamato Bella».
Sembrò confuso. «Preferisci che ti chiami Isabella?».
«No, Bella mi piace», risposi io. «Ma Charlie - voglio dire, mio padre - quando parla di me credo mi chiami Isabella: a quanto pare qui tutti mi conoscono con quel nome». Cercavo di spiegarmi, ma mi sentivo una perfetta cretina.
«Ah». Lasciò cadere il discorso. Io distolsi lo sguardo, gof­famente.
Grazie al cielo il professor Banner iniziò la lezione proprio in quel momento. […]
Alzai gli occhi e c'era lui a fissarmi, con quel­la solita aria di inspiegabile frustrazione. All'improvviso capii quale fosse la leggera differenza che avevo percepito nel suo viso.
«Porti le lenti a contatto?», mi uscì di bocca, senza pensarci.
Lui sembrò spiazzato dalla mia domanda inaspettata. «No».
«Oh. Mi sembrava di avere notato qualcosa di diverso nei tuoi occhi».
Si strinse nelle spalle e guardò altrove.
A dire la verità, ero sicura che ci fosse qualcosa di diverso. Avevo un ricordo molto vivo dell'ultima volta che mi aveva ful­minata con lo sguardo, con quel nero cupo che spiccava sullo sfondo del suo colorito pallido e dei capelli ramati. Oggi la to­nalità era completamente diversa: uno strano ocra più scuro di una caramella ma con i riflessi dorati. Non capivo come fosse possibile, a meno che per qualche motivo non mi avesse men­tito sulle lenti a contatto. Oppure Forks mi stava letteralmente facendo impazzire.
Abbassai lo sguardo. Di nuovo teneva i pugni serrati.[…]
«Peccato per la neve, eh?», chiese Edward. Avevo la sensazio­ne che si sentisse in dovere di parlare con me. La paranoia mi as­salì di nuovo. Era come se avesse ascoltato la mia conversazione con Jessica, a pranzo, e volesse dimostrarmi che sbagliavo.
«Non direi». Risposi con sincerità, anziché fingere di essere normale, come tutti gli altri. Ero ancora impegnata a liberarmi di quella stupida sensazione di sospetto e non riuscivo a con­centrarmi.
«Il freddo non ti piace». Non era una domanda.
«Neanche l'umido».
«Per te dev'essere difficile vivere a Forks», concluse.
«Non lo immagini neppure», mormorai, cupa.
Sembrava affascinato dalle mie parole, ma il motivo mi sfug­giva. Il suo viso mi distraeva così tanto che cercavo di non fis­sarlo più di quanto mi imponessero le buone maniere.
«Ma allora, perché sei venuta qui?».
Nessuno me l'aveva mai chiesto, non in maniera così diretta.
«È... una storia complicata».
«Penso di poterla capire», insistette.
Feci una lunga pausa, poi commisi l'errore di incrociare di nuovo il suo sguardo. I suoi occhi d'oro mi confondevano, e ri­sposi senza pensarci.
«Mia madre si è risposata», dissi.
«Non sembra così complicato», ribatté lui, ma si fece im­provvisamente comprensivo. «Quando è stato?».
«Settembre». La mia voce suonò triste anche alle mie orecchie.
«E lui non ti piace», dedusse Edward, ancora con un tono gentile.
«No, Phil va bene. Forse troppo giovane, ma un bel tipo».
«Perché non sei rimasta con loro?».
Non riuscivo a capire il motivo del suo interessamento, ma continuava a fissarmi con quello sguardo penetrante, quasi che la banale storia della mia vita fosse una questione di importan­za capitale.
«Phil viaggia molto. Gioca a baseball. È un professionista». Feci un mezzo sorriso.
«Lo conosco?», chiese, sorridendo anche lui.
«Probabilmente no. Non è un bravo professionista. Solo se­rie minori. Cambia squadra di continuo».
«E tua madre ti ha spedita qui per poterlo seguire». Nem­meno questa suonava come una domanda, sembrava più una conclusione.
Ebbi un invisibile fremito. «No, non è stata lei a spedirmi qui. Sono stata io».
Aggrottò le sopracciglia. «Non capisco», ammise, e ne sem­brava fin troppo preoccupato.
Tirai un sospiro. Perché gli stavo raccontando i fatti miei? Lui continuava a scrutarmi con ovvia curiosità.
«All'inizio è rimasta con me, ma lui le mancava. Era infeli­ce... perciò ho deciso che era il caso di passare un po' di tem­po in famiglia con Charlie». Nel dire questo la mia voce si era fatta cupa e triste.
«Ma ora sei infelice tu», suggerì lui.
«E...?», obiettai a mo' di sfida.
«Non mi sembra giusto». Si strinse nelle spalle, i suoi occhi però erano sempre intensi.
Abbozzai una risata, ma non ero divertita. «Non te l'hanno ancora detto? La vita non è giusta».
«Penso di averla già sentita», rispose laconico.
«E questo è tutto». Chissà perché mi stava ancora fissando in quel modo.
Prese a studiarmi, stava facendo le sue valutazioni. «Dai buo­na mostra di te», disse, lentamente. «Ma sono pronto a scom­mettere che soffri molto più di quanto dai a vedere».
Storsi la bocca, resistendo a malapena all'istinto di tirare fuori la lingua come una bambina di cinque anni, e distolsi lo sguardo.
«Mi sbaglio?».
Cercai di ignorarlo.
«Io credo di no», ribadì, sfacciato.
«Perché ti dovrebbe interessare?», chiesi, irritata. Evitavo di guardarlo, seguivo il professore che girava tra i banchi.
«Questa è una domanda molto sensata», bofonchiò, così piano che pensai parlasse tra sé e sé. In ogni caso, dopo qual­che secondo di silenzio, capii che non sarebbe andato oltre quella risposta.
Sospirai, imbronciata, guardando la lavagna.
«Ti do fastidio?», chiese. Sembrava divertito.
Mi voltai verso di lui senza pensare... e gli dissi di nuovo la verità. «Non esattamente. Sono io stessa a darmi fastidio. Il mio volto è così facile da leggere... mia madre dice sempre che sono un libro aperto». Aggrottai le sopracciglia.
«Al contrario, per me tu sei molto difficile da leggere». Mal­grado tutto ciò che gli avevo detto e che lui aveva intuito, sem­brava sincero.
«Devi essere un bravo lettore, allora», replicai.
«Di solito sì». Si illuminò di un gran sorriso, sfoggiando una schiera di denti perfetti e bianchissimi.

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